Con “The Complex Forms”, Fabio D’Orta si afferma come una delle voci più innovative del panorama cinematografico internazionale. Regista, scenografo, illustratore e vfx artist, Fabio D’Orta porta sul grande schermo un’opera che sfida i confini del cinema di genere, mescolando l’onirico con il simbolico. La pellicola, ambientata in una villa decadente che si trasforma in un “limbo esistenziale”, è un’esperienza visiva e sensoriale unica, premiata in prestigiosi festival internazionali come lo Slamdance Film Festival e il Fantasporto.
D’Orta non solo ha curato la regia, ma si è anche dedicato personalmente al montaggio, alla fotografia e agli effetti visivi, dimostrando una padronanza completa del mezzo cinematografico. In questa intervista, Fabio ci racconta il processo creativo dietro “The Complex Forms”, le sue ispirazioni artistiche e le sfide affrontate durante la produzione, offrendoci uno sguardo intimo e profondo su un progetto che ha tutte le carte in regola per lasciare un segno nel cinema contemporaneo.
Ho proposto a Fabio D’Orta una intervista per raccontarci il processo creativo e produttivo di “The Complex Forms”, mettendo in evidenza la sua visione artistica e il suo ruolo di regista, scenografo e artista visivo. L’intervista permette di scoprire l’essenza del film, il simbolismo dietro le sue immagini e le sfide affrontate durante la produzione, offrendo al pubblico una prospettiva unica su uno dei registi emergenti più interessanti del panorama cinematografico internazionale.
INTERVISTA
“The Complex Forms” è stato accolto con grande entusiasmo nei festival internazionali, ricevendo numerosi premi. Come ti senti rispetto a questo straordinario successo?
Sono onorato di questa accoglienza tutt’altro che scontata, ma la cosa che mi rende più felice è il fatto che il film sia stato accolto in modo trasversale da festival differenti e non solo di genere. Alcuni, infatti, lo hanno ritenuto uno strano film d’autore ed inserito tra film classici e d’autore. È quello che speravo, che venisse considerato in definitiva un film ibrido.
Hai un percorso artistico molto variegato: scenografo, illustratore, vfx artist e regista. In che modo queste esperienze hanno contribuito alla creazione di “The Complex Forms”?
Credo che questi interessi abbiano condizionato in modo decisivo il mio immaginario in generale. Infatti tutto è partito da sensazioni, stimoli visivi e architettonici che richiamano oggetti antichi e sacri. Adoro tutti questi processi e il conoscerli da vicino mi porta a sperimentare in modo, per l’appunto, ibrido e creativo.
La tua formazione presso l’Accademia di Belle Arti di Brera ha avuto un ruolo nel definire il tuo approccio visivo e artistico? Se sì, in che modo?
Ho studiato Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera con l’idea di imparare nuove tecniche per realizzare dei pupazzi e delle scenografie per i film d’animazione a passo uno che realizzavo in quel periodo. Adoravo i cortometraggi dei Brothers Quay e pensavo seriamente d’intraprendere quella strada, poi ho scoperto gli effetti digitali e si è aperto un mondo. L’assurdo di tutto ciò è che mai, nemmeno per un momento, ho pensato che alla fine non avrei fatto il regista, tutti questi studi erano per me solo strumenti per esprimere le cose che mi venivano in mente e mixarle tra loro. L’Accademia quindi ha influito nutrendo questo mio interesse per l’arte in generale e mi ha spronato con diversi premi e riconoscimenti. Tutto questo mi ha dato coraggio per insistere in quello che più mi piace.
“The Complex Forms” è ambientato in una villa elegante e decadente, un vero e proprio “limbo esistenziale”. Da dove nasce l’idea di raccontare una storia in questo contesto?
Mentre stavo scrivendo la sceneggiatura di un altro film, qualcuno mi ha parlato di questa villa che si trova a Chiari in provincia di Brescia. Quando sono andato a vederla ne sono rimasto rapito e immediatamente ho pensato che avrei dovuto girare un intero film in quegli ambienti. È talmente grande che ci si può trovare di tutto. È davvero una città a sé, perfetta per un limbo esistenziale.
La trama ruota attorno a una villa misteriosa e a creature monumentali. Puoi parlarci del significato simbolico di queste entità e del loro rapporto con la condizione umana?
La villa, come l’auto nera che spesso vediamo nel film, nel mio immaginario sono strumenti a servizio di un meccanismo misterioso che si ripete da un tempo eterno. Il significato delle creature è in realtà inconoscibile a mio parere ma, nella mia interpretazione, rappresenta tutto quello su cui non abbiamo un controllo e che manovra le nostre vita anche approfittando delle nostre debolezze. Oltretutto è gestito con una burocrazia cieca che non fa altro che aumentare l’idea che questo grande apparato vada avanti da così tanto tempo che forse nessuno ne ha più un vero controllo. Mi piace il fatto che ognuno possa attribuire un significato diverso a queste entità e che, in definitiva, non sapremo mai il loro vero scopo come accade per le complesse questioni sociali o per i conflitti che spesso nascondono interessi talmente grandi che sfuggono alla comprensione delle persone normali.
Il concetto di “sospensione” e “attesa” è centrale nel film. Come hai lavorato per trasmettere visivamente queste sensazioni?
L’attesa e la sospensione sono altre due grandi ispirazioni che hanno spinto il progetto. Continuavo a pensare all’immagine di questi uomini dai lunghi cappotti scuri che si muovevano in questo grande giardino nebbioso, persi nei loro pensieri. Come tutti sanno oggi più che mai il tempo vale oro, non siamo disposti a concedere nemmeno un secondo all’attesa. Gli spazi vuoti, come quelli in una sala d’aspetto prima di una visita, vengono riempiti dai cellulari. Questo ci impedisce di guardarci attorno, di studiarci l’un l’altro, di generare pensieri anche negativi, che ci preparano a quello che potrebbe accadere. Secondo me quel vuoto è importante per dare più forza all’evento incredibile e per dare una scossa improvvisa e più incisiva.
Il film si distingue per il suo stile visivo unico, con un mix di austerità ed eccesso. Quali sono stati i tuoi principali riferimenti visivi o cinematografici?
I riferimenti che avevo in mente erano molto lontani dai film di genere, persino “L’esorcista” di William Friedkin era un riferimento ma più per il tono serio e calmo con cui avanza la trama inizialmente che per la questione della possessione. Un altro riferimento importante è stato “Un tranquillo weekend di paura” dato che parla di alcune persone in una situazione estrema che cercano di cavarsela. Altri riferimenti che avevo in mente spaziavano da Bergman, Antonioni, “L’anno scorso a Marienbad”, fino ad arrivare a “Todo Modo” di Elio Petri. Tutti questi input erano comunque solo degli stimoli a cui, umilmente, cercavo di attingere per poi reinventare.
Hai scelto un formato colore B/N e un aspect ratio 1.85:1. Cosa ti ha portato a fare queste scelte stilistiche?
Abbiamo girato il film a colori ma sempre controllando a monitor anche il B/N perché, dentro di me, sapevo che alla fine avrei optato per il B/N, cosa avvenuta soprattutto per aumentare il senso di rarefazione e di classicismo austero del film. Il formato 1.85:1 mi piace ed è davvero una mia scelta fotografica, lo trovo classico, pulito e mi dà la possibilità di giocare con le altezze delle immagini senza sacrificare troppo i bordi. Di sicuro farei molta fatica, ad esempio un formato 2.35:1, proprio per il modo con cui mi piace giocare con gli ambienti, ma mai dire mai.
Il design delle creature ha ricevuto importanti riconoscimenti. Puoi raccontarci il processo creativo che ha portato alla loro realizzazione?
Ho vinto premi in America e Giappone per il design delle creature, ed è stato fantastico. La creazione di queste entità nasce dall’osservazione di certi grandi altrari delle chiese e in generale di strutture legate a riti di varie religioni. In questo caso il mio background da scenografo probabilmente mi ha influenzato perché da subito ho sentito il desiderio di vedere queste strutture prendere vita. Mi stimolava l’idea che queste creature imponenti e millenarie fossero di razze diverse, cariche di storia o che addirittura ognuna di loro fosse al centro di un culto religioso che non conosceremo mai, come accade in alcuni libri H.P. Lovecraft.
Le riprese si sono svolte in parte nel 2020 e in parte dopo il primo lockdown. Quali difficoltà hai affrontato durante la produzione in questo periodo complicato?
È stato davvero strano perché mentre giravamo non avevamo il tempo di guardare i telegiornali ma spesso arrivava qualche comparsa che iniziava a parlare di possibili chiusure che francamente, allora, ci sembravano impossibili. Poi quando abbiamo finito le riprese in villa, di colpo tutto ha chiuso. Nella tragedia sono stato fortunato perché in quel periodo di chiusura ho iniziato la post produzione con il montaggio e poi il lungo lavoro sugli effetti digitali. Quando sono iniziate le riaperture siamo corsi a girare quello che mancava, cioè alcune scene in un bosco e le scene delle cucine che abbiamo girato in realtà nei sotterranei di un ospedale.
Il film è stato realizzato con un budget ridotto e una troupe essenziale. Come hai gestito questa situazione per garantire la qualità artistica e tecnica del progetto?
Il film è stato prodotto con un budget davvero ridottissimo e la troupe era composta da tre persone, me compreso. In pratica tutto era concepito per reggersi sulle mie spalle e sulle mie competenze. Nonostante questo, non abbiamo mai avuto problemi e non abbiamo avuto grossi ritardi. Tutto era concepito e testato molto prima di girare con molti studi e ricerche sulle ottiche e sulle attrezzature, che dovevano essere facili da trasportare.
Hai curato personalmente il montaggio, gli effetti visivi e la color correction. Cosa ti ha spinto a voler avere il controllo totale di questi aspetti tecnici?
In parte è dovuto ovviamente alla mancanza di budget e in parte a una volontà di maneggiare per intero l’oggetto filmico in ogni aspetto. Adoro lavorare in squadra e non credo di ripetere questa esperienza solitaria, però sono contento di essere riuscito a completare tutto con le mie forze e di aver vito premi per ognuno di questi aspetti. Grazie a questa esperienza ho sicuramente acquisito competenze che mi aiuteranno ad agevolare e sostenere il lavoro di tutti i reparti di una produzione.
Il cast è composto in gran parte da attori non professionisti. Cosa ti ha portato a questa scelta e quali sono stati i vantaggi e le sfide di lavorare con loro?
Mi piaceva l’idea di lavorare con attori non professionisti e sfruttare la loro spontaneità. Dato il budget ridotto non avrei comunque potuto fare dei veri casting, quindi li ho cercati personalmente sul territorio di Brescia. Mi sono concentrato sulle facce che avevo concepito mentalmente mentre scrivevo la storia e ho usato ogni stratagemma per ottenere il livello di serietà che volevo raggiungere. Veri svantaggi non ci sono stati, perché gli attori non professionisti tendono a seguirti con molta umiltà, proprio perché per loro è tutto nuovo. Basta solo creare un clima sereno e avere le idee molto chiare.
David Richard White è l’unico attore professionista. Come è avvenuta la scelta di questo attore e cosa ha portato al film con la sua interpretazione?
David mi è stato suggerito spulciando internet. Almeno per il ruolo da protagonista avevo bisogno di qualcuno che potesse sostenere il peso di condurci attraverso tutto il film con emozione e professionalità. La sua faccia internazionale, la sua bravura e umiltà mi hanno conquistato da subito e hanno sicuramente arricchito di sfumature l’intero film.
Come hai diretto gli attori per trasmettere il senso di “disagio esistenziale” richiesto dai loro personaggi?
Soprattutto per via del basso budget avevo fatto degli storyboards precisi di tutto il film e mi ero prefigurato mentalmente ogni interpretazione. Quello che ho dovuto fare è stato comunicare lo stato d’animo continuo di ogni personaggio, recitando personalmente ogni parte del film in modo da dare un riferimento preciso agli attori e suggerire poi le battute che venivano ripetute in tempo reale. David White invece, da grande professionista, aveva memorizzato tutte le battute della sceneggiatura e spesso anche quelle degli altri attori. L’unica cosa che credo di avergli chiesto è stato di limitare al minimo i gesti e di fare un lavoro a togliere.
La colonna sonora di Riccardo Amorese e gli effetti sonori di Marco Sciannamea ed Edoardo Barone Lumaga contribuiscono a creare un’atmosfera unica. Come hai collaborato con loro per ottenere il sound desiderato?
Riccardo Amorese è un grande talento italiano, dotato di una sensibilità e una cultura davvero importanti. Come tutte le persone intelligenti è umile e autoironico, quindi invece di aggredirmi con imposizioni dettate dal suo ego, ha pazientemente ascoltato le sensazioni che volevo trasmettere, ed ascoltato i riferimenti musicali più disparati che gli ho fornito. Credo abbia fatto un lavoro davvero incredibile e raffinato ed ho potuto testare con mano nei festival in tutto il mondo la forza della sua musica. Per gli effetti sonori ho fornito personalmente dei montaggi di suoni che fungevano da esempio per poter velocizzare il lavoro, purtroppo non abbiamo avuto il tempo necessario per riempire come avrei voluto.
Quali emozioni volevi evocare attraverso la colonna sonora? Hai fornito indicazioni precise al compositore o hai lasciato spazio alla sua creatività?
Come dicevo ho fornito una serie di ispirazioni legate principalmente all’atmosfera, che sono il mio modo di spiegare cosa mi piacerebbe. Poi Riccardo Amorese ha preso quel groviglio è lo ha plasmato seguendo la sua sensibilità in qualcosa di unico.
Il film affronta temi esistenziali e filosofici. Come desideri che il pubblico interpreti questi temi e qual è il messaggio principale che vorresti trasmettere?
Ho cercato di suggerire il meno possibile un’interpretazione, volevo che il film accendesse la curiosità e portasse verso un territorio esistenziale e filosofico ma senza forzature o imposizioni. Come detto in precedenza, mi piace il fatto che ognuno abbia una propria interpretazione e sono sempre molto curioso di sentire dei pareri in proposito. Personalmente ho una visione piuttosto pessimistica e pragmatica del nostro mondo che mi porta naturalmente verso Nietzsche. Di conseguenza il messaggio che probabilmente ne estraggo è che bisogna avere uno slancio vitale e reagire anche al più grande e potente inganno, in modo da riprendere pienamente il controllo della propria vita e magari diventare oltreuomini.
C’è una scena in particolare che consideri centrale per comprendere il significato dell’intero film? Se sì, quale e perché?
Ci sono alcune scene importanti in questo senso ma farei degli spoiler. In generale però le scene nell’ufficio del direttore suggeriscono la prepotenza del potere ingannatore e l’assurdità burocratica che ne consegue.
Le “creature ciclopiche e maestose” sembrano incarnare qualcosa di arcaico e misterioso. Quali simboli o significati hai voluto attribuire a queste figure?
Ho sempre visto queste creature come un archetipo dell’impossibilità di avere un quadro preciso della realtà in cui viviamo e dell’illusione di avere un controllo sulle forze che ci circondano. Con la loro imponenza e soprattutto il loro carico di storia, rappresentato dalla massa di decori che li ricopre, ci suggeriscono qualcosa di eterno e potente che non avevamo mai notato ma che è sempre stato lì, nelle pieghe del tempo. Improvvisamente siamo stupiti da questa visione e ci troviamo costretti a riconsiderare il nostro ruolo in un universo che non capiamo.
“The Complex Forms” ha vinto premi importanti in festival prestigiosi come Slamdance, Fantasporto e il Sydney Science Fiction Film Festival. Quale riconoscimento ti ha emozionato di più e perché?
Data la storia produttiva di questo film, il riscontro che ha avuto nei festival è stato davvero speciale. Sono orgoglioso di tutti i premi e le proiezioni che ha avuto in tutto il mondo a partire dal festival di Torino, dove abbiamo esordito vincendo una Menzione Speciale e poi lo Slamdance Film Festival, l’importante festival americano che ha scoperto registi come Christopher Nolan e Bong Joon-ho, dove abbiamo vinto una Menzione D’Onore. Poi il premio speciale della giuria al Fantasporto in Portogallo, il miglior film e miglior fotografia al Curtas in Spagna, la selezione allo Screamfest di Hollywood, sono davvero tanti e magnifici i festival che ci hanno ospitato e premiato, ne sono davvero fiero.
Ricevere premi per la regia e per gli effetti visivi è una doppia soddisfazione. Cosa significa per te essere riconosciuto in queste due aree?
Ne sono ovviamente orgoglioso, soprattutto per quanto riguarda la regia. Sono felice che sia stato notato uno stile e che mi sia stato riconosciuto. Sono felice anche per gli effetti visivi ma lo sono ancora di più per i premi vinti per la fotografia, perché curarla personalmente è stato un grande rischio ma ha anche meglio definito la mia estetica.
Dopo tanti festival internazionali, come pensi che il pubblico italiano accoglierà il film?
Spero che stimoli la curiosità e l’interesse delle persone ma le reazioni sono davvero legate a quello che ci si aspetta da un film che può variare in momenti diversi della vita. Personalmente al cinema non chiedo di essere solo intrattenuto ma di essere stimolato con qualcosa di diverso. Spero che presto questo film abbia una vita distributiva nel nostro paese e qualsiasi reazione susciterà sarà comunque positiva, l’importante è che smuova qualche corda.
Dopo il successo di “The Complex Forms”, hai già in mente un nuovo progetto cinematografico? Puoi anticiparci qualcosa?
Sto lavorando a una nuova sceneggiatura e fortunatamente ho avuto degli interessamenti da parte di realtà estere ma per ora niente di sicuro. Posso anticipare che anche in questo film si parlerà di qualcosa di straordinario e al limite della fantascienza per riflettere sul contemporaneo e trarne qualcosa di più profondo.
Hai prodotto il film con la tua casa di produzione, Metronic Films. Cosa significa per te essere anche produttore e quali sono i vantaggi e le sfide di questa scelta?
Innegabilmente è un vantaggio produrre i propri film proprio perché sei libero in ogni scelta e il controllo sulla qualità è totale, dall’altra parte è davvero faticoso ed è una scelta dettata più dall’esigenza che dalla vera volontà. In futuro vorrei collaborare ed avere aiuto e sostegno, magari anche dal mio paese, perché in definitiva vorrei concentrarmi sulla regia. Comunque non escludo di proseguire in qualche modo con la produzione.
Qual è la tua visione sul futuro del cinema indipendente in Italia? Che consiglio daresti ai giovani registi emergenti che vogliono creare film con un budget ridotto?
La situazione indipendente italiana mi sembra molto vitale, manca forse un pò di attenzione e di coraggio da parte dei canali ufficiali. Direi che mai come in questo momento è possibile realizzare film indipendenti quindi, come dicono tutti i registi, consiglierei a un giovane di girare e di farlo in qualsiasi modo.
Come regista, qual è il film o il regista che ti ha maggiormente ispirato e continua a farlo tutt’oggi?
Da questo punto di vista sono davvero diviso perché, se da un lato sono stato influenzato da film legati al fantastico come “Alien” o i film di David Cronenberg, dall’altro ho una passione per i grandi capolavori classici come quelli di Bresson, Bergman o Kubrick. Se dicessi che ne ho uno solo, mentirei.
Se potessi tornare indietro nel tempo e dare un consiglio a te stesso all’inizio della tua carriera, quale sarebbe?
In passato ho fatto scelte sbagliate guidato dal mito di trovare il produttore che doveva farti realizzare il tuo primo film. Ho pagato quell’errore perdendo molti anni di carriera, quindi mi consiglierei di non aspettare nessuno e di girare immediatamente.
Quali sono le tre parole che meglio descrivono Fabio D’Orta come artista e come persona?
Metodico, curioso, affidabile.
Con “The Complex Forms”, Fabio D’Orta ci invita a riflettere sul mistero, sull’attesa e sulla condizione umana. Un film che non si limita a essere visto, ma deve essere vissuto.
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