Dopo Madame Claude, salito subito in vetta ai film di maggior successo presentati su Netflix in virtù della destrezza d’imprimere un sapido mix di ragguagli storici ed esami comportamentistici a quella che fu definita “La più bella operazione sessuale mai condotta nella storia dell’umanità” relativa all’elitaria rete di cinquecento ragazze squillo istituita a Parigi dalla celebre maitresse Fernande Grudet il cui nome d’arte cementò l’emblematico passaggio dagli speakeasy clandestini all’atmosfera fashion della nightlife anni Sessanta, l’ambiziosa regista transalpina Sylvie Verheyde torna ad affrontare in chiave autobiografica l’ansia di riscatto sociale del personaggio dell’umbratile Stella.
Undicenne periferica dapprincipio ammessa nella prestigiosa scuola media del capoluogo francese dove la complicità femminile garantitale dalla prodiga compagna di classe Gladys le infonde il coraggio necessario ad anteporre il senso dell’idonea condivisione alla spada di Damocle dell’amara esclusione. A un tiro di schioppo dal conseguimento della maturità liceale nel sequel Stella è innamorata.
All’inerzia di ripercorrere l’humus narrativo già ampiamente battuto dell’inesorabile scoperta dell’eros muliebre in concomitanza con mondo vespertino scandito dalla sensualità dei movimenti d’anca dimenati sulla pista da ballo, con Il tempo delle mele di Claude Pinoteau ed Estate ’85 di François Ozon sugli scudi, funge da probo antidoto la freschezza di stile esibita nell’ambito della commedia riflessiva. In grado di andare oltre la pigrizia delle idee prese in prestito da quella sofisticata e dai romantici teen dramedy d’ordinaria amministrazione. Anche se l’effigie del modesto bar di proprietà dell’immusonita madre di Stella, piantata su due piedi dal fedifrago marito, dell’ambiente della working class giustapposto ai consorzi domestici borghesi, dei luoghi d’aggregazione conformi ai voli pindarici d’una ragazzina intimorita dall’alta densità lessicale padroneggiata dai professori al contrario degli habitué della mescita familiare, paga dazio a un timbro troppo sbrigativo rispetto all’ampio ed esaustivo dato antropologico fornito nel previo affresco dell’ermetica terra di mezzo tra infanzia e adolescenza, sulle noti del brano nostrano Ti amo di Umberto Tozzi, con le piccole trasformazioni dell’acerba protagonista colte con la debita scioltezza espressiva, la cornice resta ugualmente vivace e versatile. Al termine delle vacanze trascorse in Italia, contraddistinte dai versi intradiegetici della canzone “Vado via” di Drupi, lo sbandierato sverginamento collettivo dei profili di Venere in procinto di conseguire il diploma e diventare finalmente grandi nasconde i fattori di scoramento per le bugie pronunciate al riguardo nell’etereo trasporto tipico della primavera dell’esistenza.
La transizione autunnale verso l’inverno esacerba l’aria d’incomunicabilità a casa, con l’incolta madre estranea alla finezza di gusti agognata dall’intimità collettiva delle piccole donne desiderose di entrare a far parte del popolo della notte, e proietta Stella lungo gli ambìti binari del prolungamento ideale dell’habitat privato sulle ali dell’inusuale euforia. Il ritratto sfumato dell’ex bimba col fisico da spogliarellista e l’ingenuo broncio perennemente dipinto sul tenero volto cede così spazio all’estrema meraviglia connessa alla rievocazione, mediante gli occhi dell’indocile studentessa, del tempio per eccellenza dell’edonismo negli anni Ottanta: l’esclusiva discoteca Les Bains Duches. La morbida voice over di Stella, pedinata secondo copione dalla canonica inquadratura di quinta d’ascendenza zavattiniana nell’accesso alle agognate stanze ghermite dallo scintillio psicadelico, traligna le pieghe nostalgiche d’una messa in scena che chiama a raccolta il ricordo di diversi cult precedenti – tipo La febbre del sabato sera – nelle infeconde componenti manieristiche della modalità esplicativa. Riscattata dalla sagace funzione introspettiva a braccetto con l’alacre tenuta figurativa. L’indubbia capacità di scrivere con la luce dell’accorta fotografia trascende pertanto i pleonastici colpi di gomito del pur valido montaggio alternato che stenta ad abbrancare appieno l’intrinseco rapporto tra introversione ed estroversione. Risulta dunque maggiormente persuasivo l’avvicendarsi di distanziamento e coinvolgimento. Legato a doppio filo con la postura sinuosa delle flessibili schiene piegate in avanti, l’intensità di una sbirciatina, intrisa talora di mistero, assorta nell’ipnosi dell’aura sospesa, lo strusciamento dei corpi, le acrobatiche piroette.
Piroette eseguite con virtuosistica speditezza ed esuberanza dal funambolo di colore che innesca le frecce di Cupido. La miscela di azione e contemplazione sancisce in questo modo un risalto scenico degno di nota. Giacché vede ben al di là del campanile in questione e sopperisce dunque ai limitanti segni d’ammicco del pedissequo rimando citazionistico. Da Zazie nel metrò di Louis Malle a Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Sylvie Verheyde dimostra di possedere riserve insospettate allargando il punto d’osservazione, al riparo dall’accidioso déjà vu, con l’ausilio decisivo della fragranza dell’originalità. Che avvicenda all’indagine a largo raggio sull’insoddisfazione d’ogni oggi, sulla speranza dell’avvenire della società di domani, sul clima emotivo del tempo sospeso, ingraziosito dalle parole d’hit generazionali, le vibrazioni dei pensieri segreti. Affidati agli eloquenti silenzi dei sacrosanti interludi di quiete. Del tutto estranei alle programmatiche confessioni della voce fuori campo. Flavia Delangle anima l’intera ribalta nel ruolo della recalcitrante fanciulla che sembra lì per lì avere paura di sé stessa ma ingraziosisce in zona Cesarini l’ebbrezza dell’età verde con l’inopinato slancio delle (anti)eroine dei romanzi di formazione. Stella è innamorata chiude perciò i battenti sulla scorta d’una toccante frangia goliardica. Rinsaldata dalla rediviva concordia garantita dalle sollecite coetanee. In barba ai giochi intellettualistici e ai sotterranei interrogativi alieni alla schiettezza della solidarietà sbarazzina.
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