Regista prolifico e poliedrico, Michael Winterbottom unisce spesso documentario e fiction con una non comune accuratezza documentale e di fonti e, al contempo, una visione ampia che dà respiro alla storia raccontata nel particolare. Shoshana si inserisce in questo filone: un thriller politico che è il racconto della Palestina durante il mandato della Gran Bretagna (Mandatory Palestine, 1920-1948) visto attraverso gli occhi di una donna ebrea che vive un amore a dir poco complicato con un agente della squadra antiterrorismo della Polizia britannica palestinese.

Lei è Shoshana Borochov (Irina Starshenbaum), ebrea arrivata con la famiglia a Tel Aviv alla fine degli anni Venti; ispirata dal sionismo socialista del padre (Ber Borochov), crede fermamente che ebrei e arabi possano convivere in Palestina. Lui è l’inglese Thomas Wilkin (Douglas Booth), che ha imparato a conoscere e considerare casa Tel Aviv e la Palestina, studiando la lingua ebraica e rispettando valori e diritti di entrambe le fazioni, moderatore tra le parti per quanto possibile. La loro storia d’amore è forte ma non passa inosservata: malvista dagli ebrei più integralisti, guardata con sospetto dai superiori inglesi di Tom. Intorno a loro, la situazione in Palestina si fa sempre più critica: gli attacchi terroristici si fanno sempre più frequenti, da entrambe le parti e in tutto il Paese, minandone la stabilità così come il ruolo dell’occupante britannico.

Se l’esecuzione di Shlomo Ben Yosef nel 1938 (colpevole di un attacco ad un autobus di civili arabi) lo fa divenire automaticamente martire della causa sionista, il centro della rivolta è il gruppo paramilitare Irgun guidato dal leader Avraham Stern, che rivendica il possesso della Terra Promessa al popolo di Israele. Se inizialmente i sostenitori dell’Irgun sono una parte minoritaria che gli stessi ebrei guardano con sospetto e tacciano di fascismo (in particolare Shoshana e i suoi amici, membri del gruppo paramilitare di autodifesa Haganah), le cose precipitano quando l’assassinio del capo della Polizia inglese viene assassinato e sostituito dal cinico e spietato Geoffrey Morton (Harry Melling), determinato a catturare Stern a qualunque costo, facendo un uso indiscriminato di delazioni, tradimenti, torture e giustizia sommaria.

Shoshana, liberamente tratto dalla vera storia della figlia del teorico deli sionismo socialista Ber Bochorov, racconta come ha avuto inizio la guerra senza fine nella martoriata Palestina tra arabi ed ebrei, ma soprattutto mette sotto accusa l’incapacità del governo inglese di comprendere appieno quel che sta accadendo, alternando indecisione e paternalismo e preferendo infine il semplice uso della violenza per dirimere questioni ben più complesse. Non è un caso che si faccia riferimento – per analogia – all’occupazione statunitense di Iraq e Afghanistan; anche qui l’intervento delle democrazie occidentali ha suscitato più critiche che positivi risultati concreti, e il richiamo a The road to Guantanamo, diretto da Winterbottom e Whitecross nel 2006, aleggia sottotraccia, a partire dalle torture espletate in Shoshana da Morton e dai suoi stretti collaboratori per ottenere le informazioni volute.

In questo scenario complesso la storia d’amore tra Shoshana e Tom resta quasi in secondo piano, schiacciata dagli eventi; se ne percepisce l’intensità grazie al ricorrere del brano di George e Ira Gershwin The man I love. La colonna sonora ha inoltre in Shoshana una parte preponderante, riuscendo a richiamare il sentimento ed a scandire al contempo – con ansiogena maestria – i momenti di drammaticità e tensione. Altro protagonista del film è lo scenario: una Palestina che non esiste più, ricostruita in una Puglia attuale, tra le province di Taranto, Lecce e Brindisi, che dà un senso di deja-vu a chi da quelle parti è nato e vissuto, ma anche a chi vi è solo passato per una breve vacanza.


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