L’inversione di tendenza mandata ed effetto dall’esperto regista francese Stéphane Brizé con Le occasioni dell’amore – anteponendo l’elegiaca sottigliezza delle carezzevoli ed emblematiche nuance crepuscolari alla crudezza oggettiva esibita nell’alacre trilogia sull’impietoso universo dell’instabile e fuorviante lavoro costituita da La legge del mercato, In guerra e Un altro mondo – rappresenta pure, almeno sotto certi aspetti, una sorta di ritorno al passato. Basti pensare al mélo introspettivo Mademoiselle Chambon, il film che segna l’inizio dell’affinità elettiva stabilita palmo a palmo con l’intenso attore transalpino Vincent Lindon. Bravissimo a tirar fuori le farfalle allo stomaco dovute alla fase d’innamoramento in grado di trascendere lì per lì lo scoglio della stratificazione sociale.
Anche il dramedy Quelques heures de printemps, in cui l’interprete feticcio, trascinante protagonista poi della mesta ed empatica trilogia, incarna un ex galeotto deciso a trascorrere le residue ore di primavera rimaste del titolo assieme alla madre malata in procinto di sottoporsi al suicidio assistito, testimonia la previa propensione ad analizzare l’altalena degli stati d’animo congiunti agli eventi minimi della sfera intima anziché quella connessa all’esistenza collettiva.
Tuttavia, a cominciare dalla proverbiale attenzione riposta nella scelta del titolo originale, Hors-saison, ovvero “fuori stagione”, il mutamento di segno rispetto alla rappresentazione della penuria di uguaglianza persino nelle mura domestiche, attanagliate dall’iniqua egemonia delle risorse materiali distribuite iniquamente secondo gli alfieri del livellamento egualitario, privilegia la componente spirituale del realismo fenomenico dispiegato lontano da qualsivoglia corsa a ostacoli. Ed ergo l’evocazione delle immagini tipiche dell’inverno frammiste ai problemi del benessere d’ogni vigore sospeso. Ed è un presunto privilegiato, rispetto a chiunque affronti la lotta alla precarietà badando al sodo, invece di servirsi dell’arte talora eterea della recitazione per mettersi nei panni altrui a beneficio degli entusiasti spettatori cinematografici, che abbandona le prove sul palcoscenico per anteporre l’ansia malcelata di staccare la spina in un albergo fuori stagione in Bretagna all’ambizione di chiudere il cerchio nei teatri parigini. All’attenuazione del nerbo narrativo sciorinato precedentemente corrisponde così l’incremento in automatico dell’etica della messa in scena. Che contempla toni pacati, al posto dei timbri accesi del thriller edificante avvezzo ad appaiare il bisogno aziendale di guadagnare e la coscienza di eludere i consueti ed empi tagli al personale, veicolando le sempiterne ragioni d’insicurezza nell’aura contemplativa. Un’operazione che sa di déjà vu e richiama infatti alla mente tanto l’inarrivabile 8½ di Federico Fellini quanto il sardonico Somewhere di Sofia Coppola.
L’accidia tipica dei nani sulle spalle dei giganti, seppure nascosta dall’efficacia della prosa asciutta e dall’opportuno taglio geometrico delle inquadrature capaci di rendere appieno l’alienazione trasmessa dalla gabbia dorata deserta, sembra dimostrare che le punture di spillo riservate all’attanagliante capitalismo ispirino meglio l’involuto Brizé dell’interazione tra interni rivelatori ed esterni panteisti dove, in mezzo al risaputo rapporto riflessivo del reale con la simbolica scrittura per immagini, vibra, o dovrebbe vibrare, lo scavo interiore. Ad appannaggio del soprannaturale. Non basta la sensazione illusoria di movimento del corpo attonito, sottoposto alle classiche cure pleonastiche, e dell’habitat circostante, con i clienti avanti con gli anni alieni agli slanci dell’età verde, per andare oltre i limiti d’una sensibilità visiva contrabbandata per arguzia introspettiva. La sostituzione dei programmatici piani di ambientazione con i suoni e i versi della natura emessi dagli animatori di turno, nell’ambito d’una serata in albergo all’insegna delle virtuosistiche imitazioni dei soprani sui generis, non basta ad alzare l’asticella dell’opera a tesi. Sprovvista della fragranza dell’originalità. A dispetto dei forbiti palpiti sommessi, mai sopra le righe, e dell’appropriata successione apparentemente casuale di contesti allegorici ed epidermici incontri. I prevedibili momenti epifanici con la vecchia fiamma impersonata in chiave malincomica dalla nostra Alba Rohrwacher, che mette in gioco il suo accento non impeccabile per impreziosire il carattere d’autenticità legato alla performance contenuta da copione, incidono poco o niente nella mancata virtù di trasportare gli spettatori in un’atmosfera che esula dall’ordinario.
La ricerca dell’alterità, intesa appunto come qualcosa di diverso dalla solita minestra, perde quindi spessore nel passaggio dagli enigmi da sciogliere per guardare in grande senza svilire le piccole ruote del carro finanziario allo stucchevole sensibilismo frammisto al rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato. La retorica per di più del divo della fabbrica dei sogni chiamato a fare i conti con una verità, interiore ed esteriore, diametralmente opposta alla tabella di marcia dell’impersonificazione scenica traligna nei limiti dell’osservazione sociologica condotta in conformità con la bozzettistica sfera degli affetti e dei valori privati contrapposti all’inerte moralità economica. Lo sforzo di attribuire alle strade vuote del paese limitrofo e all’effigie targata Cartagine delle immancabili onde che s’infrangono sulle rocce lo status d’una lirica sconfessione dei segni allegorici dell’ingannevole prosperità cade nel ridicolo involontario. Al contrario il processo di analisi compiuto dal misuratissimo Guillaume Canet aderendo sulla scorta delle impeccabili sfumature alle ubbie e agli estemporanei slanci d’una stella che non brilla distante dai set risulta degno d’encomio. Le occasioni dell’amore puntando in zona Cesarini però sull’orizzonte del mare e sulla visuale dall’alto dell’Onnipotente, per cogliere il mix d’insistiti silenzi ed eloquenti lentezze nelle ombre d’una cerchia ristretta, trascina la profondità di campo nella superficiale pretesa di scomodare i misteri della grazia per dei batticuori, stringi stringi, alla Harmony.
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