Deciso a costruirsi una solida reputazione a partire dal film d’esordio Il cattivo poeta, diretto sulla scorta di un’originalità espressiva più formale che sostanziale scandagliando cioè l’emblematico crepuscolo dell’orgoglioso Gabriele D’Annunzio nella celebre villa a Gardone Riviera all’interno del complesso monumentale dove coniugò l’esistenza all’imperfetto, l’intraprendente regista partenopeo Gianluca Jodice affronta ancora una volta con Le déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta l’humus della decadenza legata ai passaggi epocali in base all’interazione tra habitat ed esseri umani.

Infatti il rapporto con gli oggetti inanimati dentro il luogo del supplizio per eccellenza dell’ancien régime arricchisce di curiose prospettive figurative la relazione della coppia reale a un tiro di schioppo dal patibolo con l’algido centro degli affetti costituito dalla sede obbligata della compagine familiare privata dei comfort ai quali erano abituati.

Il salone semideserto in cui gli interdetti sovrani sono costretti ad accamparsi alla bell’e meglio insieme alla prole, la figlia quattordicenne Marie-Thérèse e l’ormai ex delfino Louis-Charles di appena sette anni, a braccetto con la sorella di Luigi XVI, Madame Èlisabeth, il ligio servitore e l’amica del cuore della regina, Maria Teresa di Savoia-Carignano, principessa di Lamballe, le austere mura, quasi spettrali, l’arredamento ridotto al lumicino, con gli esigui spazi esterni concessi per esorcizzare nello svago l’orrore dell’impietoso tramonto, trasmettono l’angoscia che serpeggia nei reclusi di sangue blu. All’avventizio autore napoletano preme principalmente comprendere ed esibire mediante la qualità pittorica della scrittura per immagini cosa si nascondeva dietro la maschera a un soffio dalla fine tanto dell’audace poeta piratato dalla sorte, con gli stati d’animo in subbuglio riverberati dall’autentica location del Vittoriale in provincia di Brescia eletta ad attante narrativo conforme al concetto di declino, quanto dei monarchi spodestati dalla reggia di Versailles. Attesi dal custode della Torre del Tempio mentre scandisce con voce rotta dall’emozione per l’incontro imminente l’articolo primario della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sancita dalla rivoluzione francese. L’ampio ricorso alla desaturazione del colore per mezzo dell’appropriato sistema sottrattivo ad opera dell’avvertita fotografia di Daniele Ciprì sciorina pregi d’indubbia chiarezza. Lontani anni luce però dalla sottigliezza introspettiva dimostrata da colleghi muniti d’estro assai superiore, come il compianto Derek Jarman, in grado di andare oltre la comunanza dell’immancabile scala di grigi della dinamica cromatica all’egemonia dello scialbore imperante nella fatidica dimora sullo splendore delle imperiose finestre ad arco e le colonne di marmo cinte dall’ingannevole atmosfera campestre. Gli stilemi del prison drama, privi della sagacia sperimentale dei collage icastici a sostegno dell’aura ascetica, virano quindi verso un’ordinaria bravura di racconto estranea ai riflessi scenografici cristallizzati nella ieratica gestualità sottoposta all’arcigna ridda d’implacabili umiliazioni. L’innesto nel capitolo introduttivo, intitolato Le deux, di apposite geometrie severe, diametralmente opposte allo sfarzo della Galleria degli specchi edificata a Versailles, certifica i buoni frutti d’un probo mestiere a corto nondimeno della valenza simbolica che condiziona il modo di reagire dei personaggi al precipitare degli avvenimenti contrari.

Mentre la breve parentesi ai funebri rintocchi rappresentata dalla guarigione miracolosa di un parente del custode afflitto dall’orrida scrofolosi grazie al contatto della mano del deposto Luigi XVI sulle piaghe infette dell’incredulo volto plebeo trascende la suggestione di facciata ed esula nella sua incisiva intensità dalla plumbea logica incisa alla trama, il prosieguo pesca nell’ovvio. Non c’è traccia, specie nello svenimento di Maria Antonietta dinanzi alla vista della testa mozzata all’inseparabile principessa vittima dell’empia violenza di piazza, dell’epidermico processo dissolutivo approfondito dai forbiti apologhi sull’esperienza del residuo tempo a disposizione degli individui venerati al pari d’immortali divinità. Di carne al fuoco ce n’è sin troppa: l’egemonia dello spirito sulla materia. Il tabù costituito, secondo Shakespeare, dalla landa desolata dalla quale nessun viaggiatore ritorna. Le spaventevoli tenebre che tallonano chi ha i giorni contati. L’agghiacciante voltafaccia, ivi connesso, dell’oscillante buona sorte. Intenta a consegnare l’estremo conteggio. Ma si tratta di temi da sviscerare cogliendo la quotidianità degli eventi minimali anziché gli infecondi massimi sistemi. Il nodo dell’impasse di Le déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta, sul versante del tran tran concesso alla linea dinastica interrotta dal subdolo livellamento egualitario, risiede nella velleità di esplorare determinati territori senza disporre di adeguate soluzioni di ricambio rispetto al soporifero bisogno di convertire in virtù analitica ed eminentemente poetica la virtù plastica di ricreare ad arte un rilievo degno di nota servendosi dei mezzi del cinema da camera. Il rischio congiunto all’incognita della noia di piombo, che incombeva già con Il cattivo poeta nel perdurare della monotona inquadratura di quinta del protagonista agli sgoccioli dinanzi al teatro a cielo aperto del Vittoriale e al profilo di Venere nell’implicita gabbia dorata, affiora di nuovo. Alla verità di emozione garantita dalla rimarchevole destrezza recitativa di Mélanie Laurent nel ruolo della regnante che grida la disperazione al cielo quando apprende della condanna a morte emessa a discapito del consorte non corrisponde affatto l’irrinunciabile verità storica: l’assoluta priorità stabilita, al pari dell’antiretorica, da Roberto Rossellini ne La presa del potere di Luigi XIV.

La perdita del potere e della vita del nipote di quel Re Sole, che prima di chiudere gli occhi annunciò il diluvio (le déluge) in questione, richiedeva dunque una minore insistenza in certe forzature didattiche scambiate per i punti d’inserzione giusti coi capolavori del passato onde eludere l’enfasi di maniera. Risultano invece largamente sacrificate le sfumature necessarie a sgombrare il campo dalla deleteria sensazione del déjà vu. La tecnica di ripresa, scrutando i rituali intimi violati di Les êtres humains nel secondo capitolo dall’angolo visuale della ricerca sottotraccia di semplicità giustapposta alla complessità dell’operazione, applica stereotipi rintracciabili nell’effimero cerchiobottismo. Le situazioni di comprensibile tensione, frammiste alla complicità cementata a cena mangiando obtorto collo con le mani invece che con le posate sequestrate per motivi di sicurezza dai gendarmi, appaiono così preconfezionate allo scopo di rendere i siparietti, adibiti talora ad anteporre i simpatici diversivi all’amara palpitazione, simili a quelli condotti in porto da Benigni con La vita è bella. L’ombra sinistra che si leva minacciosa nel capitolo conclusivo, Les morts, spinge l’impegno stilistico a riprendere quota. Lo testimonia l’accorgimento di accostare l’immobilismo dovuto al timor panico celato dall’aristocratico contegno coi quadri viventi abitualmente gravidi di significati. In questo caso, però, a parte la riflessione innescata dal legame dell’amor vitae con lo sgomento dell’abisso, si veleggia sulla superficie del compito in classe. Riscattato dal superbo gioco fisionomico di Guillaume Canet che nelle vesti di Luigi Capeto con la barba dei tre giorni sfodera uno studio del personaggio di fronte al boia alla vigilia dell’esecuzione da pura affissione. Uno sparo nel buio dell’opera a tesi chiusa dal didascalico pudore dello schermo bianco. Al riparo dagli schiamazzi dei sordidi aguzzini assetati di presunta giustizia. L’immancabile pioggia battente, la sottrazione strategica dei colpi d’ala, i segni di costernazione dipinti sui visi dei privilegiati nel conforto dell’asilo politico veicolano Le déluge – gli ultimi giorni di Maria Antonietta lungo lo scolastico capolinea dell’affresco trito e ritrito.


Una risposta a “Le déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta: Mélanie Laurent regina per Gianluca Jodice”

  1. Avatar Maria letizia pacini
    Maria letizia pacini

    Molto interessante

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