Regista dinamico ed eclettico, nonché sceneggiatore feticcio delle pellicole art-house dell’applaudito Jafar Panahi, reclutato in questa inedita circostanza nelle alacri vesti di montatore, Nader Saeivar dietro l’ardua ma stimolante macchina da presa cerca di mantenere con il film d’impegno civile La testimone – Shahed – le promesse fatte sul versante dell’opportuna dialettica tra denuncia sociale e aura contemplativa, frammista al sentimento d’insicurezza del genere thriller, nel previo affresco collettivo No End.
L’operazione può dirsi riuscita a metà. All’attivo vanno senz’altro segnalate la conoscenza personale della materia rappresentata, relativa all’obbligo per le indispettite donne iraniane d’indossare l’hijab ed ergo di seguire le regole ereditate dalla tradizione autoctona, l’estrema cura dei particolari a braccetto con lo zelo scenografico, l’asprezza oggettiva e l’incontestabile capacità di scrivere con la luce delineando quindi i chiaroscuri psicologici riscontrabili in filigrana tanto nell’utilizzo della soverchiante forza da parte delle autorità competenti in Iran quanto nelle lotte compiute dal gentil sesso per rivendicare la propria legittima esenzione morale ed effettiva dall’empio asservimento secolare.
La protesta è veicolata sin dall’incipit dai passi di danza condotti su uno sfondo bianco alla scuola di ballo gestita con grinta muliebre dalla coriacea e avvenente Zara mentre l’anziana maestra Tarlan osserva ammirata l’indocile figlia adottiva mettere pienamente a frutto i precetti trasmessi di generazione in generazione. A dispetto del clima giornaliero d’intimidazione per cementare il controllo del corpo e dell’anima femminile. Nondimeno le reazioni mimiche catturate col dicotomico sfondo nero alle spalle degli altri profili di Venere, concordi nell’affermare l’identità individuale ed eminentemente collettiva attraverso i movimenti ritmici e le gestualità aggraziate dei giri di danza, sciorinano una vitalità visiva piuttosto risaputa. Lontana anni luce dalla sagace ed evocativa orchestrazione intimista, assorbita dall’abile alternanza tra interni salvifici ed esterni minacciosi sia nell’ambito dell’irrinunciabile passione del vero sia in quello dell’erudita effigie simbolica, del recente capolavoro Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof. Tutta un’altra musica. Con buona pace delle accattivanti canzoni, dai limpidi timbri antropologici ed etnografici, chiamate in causa alla stregua d’imperterriti inni alla libertà negata dall’autocrate regime.
Quando Zara paga con la vita l’incoercibile decisione di non indossare il velo in pubblico, inducendo – a detta delle petulanti befane represse nelle vesti di grilli parlanti – gli uomini in tentazione anziché servirsi dell’avvenenza donatale dal Padreterno per sedurre solo ed esclusivamente il marito imprenditore, preoccupato di perdere il prestigio economico ottenuto senza immischiarsi nelle questioni governative a causa delle battaglie sindacali condotte dalla risoluta consorte, la trama dovrebbe infittirsi. Acquistando lo status d’un giallo sui generis che, oltre a tenere gli spettatori col fiato sospeso in merito al filo di Arianna ricostruito dalla vegliarda Tarlan nonostante le intimidazioni ricevute step by step dai vari pezzi grossi, arricchisce i consueti sviluppi narrativi, imprevisti unicamente sulla carta, con un corollario di spunti immaginifici e nerbo descrittivo che sfuggono alla consuetudine di arrampicarsi sugli specchi delle vetuste ipotesi complottistiche. Il passaggio dalla fatua allegrezza dello spazio domestico allo strazio del funerale, contraddistinto dalle lacrime di coccodrillo dell’ipocrita coniuge, paga dazio al carattere approssimativo degli apologhi sulle inchieste giudiziarie e sui quadri familiari che stentano ad appaiare, con la medesima esattezza di accenti, empiti compassionevoli ed emblematici indugi. Allo sviluppo disuguale degli eloquenti silenzi e della sterile concitazione che esplode in una banale lite per il traffico delle automobili nel centro di Therhan, sotto lo sguardo impassibile di Tarlan, aliena alla guerra tra poveri ad appannaggio del pusillanime primogenito, replica il cipiglio assai più compiuto della significativa tela di gesti inequivocabili che l’indomita vecchietta tesse palmo a palmo. In virtù della superba maschera garantitale dalle rughe d’espressione di Maryan Bobani.
Degna d’encomio nell’aderire con mirabile misura alla tenacia della precettrice dal cuore gonfio. Decisa a dare il benservito ai topi che infestano l’appartamento in affitto, generando siparietti carichi di senso giacché fedeli ai mutamenti di tono connessi all’esistenza quotidiana, e agli impuniti gradassi. Schiavi dei simboli del benessere finanziario e dell’opprimente autorità costituita. Attorno a lei prendono piede interpreti di buona scuola relegati, però, nell’insoddisfacente ruolo delle consuete figure di fianco che finiscono per veleggiare in superficie. Pure la geografia emozionale non riesce ad appaiare alla vena sarcastica, appena soffusa, ai diversi gradi di civiltà e inciviltà umana chiamati in causa, al fervore talvolta vibrante talvolta sommesso della descrizione d’ambiente, conforme agli esercizi di equilibrio delle opere a tema, l’idoneità della location eletta ad attante narrativo di riflettere il turbinio degli stati d’animo. Che affiorano in zona Cesarini condensando la valenza allegorica, dapprincipio poco approfondita, le note affettuose, l’antidoto alla protervia amministrativa e certi scorci lirici legati al valore dei legami di sangue sulla scorta di quello aggiunto. La testimone – Shahed –, benché ci consegni un quadro spesso discordante delle azioni di chi anela prima o poi a ballare sulla tomba della Repubblica dell’Islam, taglia così in extremis il traguardo dell’intelligenza volta ad accorpare coerentemente slanci militanti ed estrema leggiadria zeppa di messaggi chiari come il sole.
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