Nel girare con La stanza accanto il suo primo film in lingua inglese negli Stati Uniti, lontano dalla forza significante della geografia emozionale innescata dal fulgido senso d’appartenenza, l’esperto ed estroso regista madrileno Pedro Almodóvar cerca di convertire i valori figurativi avallategli dall’alacre fotografia in saldi valori introspettivi.
Lo scopo dichiarato risiede nell’interazione tra il tema tenebroso del fine vita, ed ergo l’idea di mesta rassegnazione nonché di attanagliante sgomento dinanzi al profilarsi all’orizzonte dell’ermetica terra inesplorata d’ascendenza shakespeariana da cui nessun viaggiatore ritorna, e l’immersivo tripudio dei catartici colori congiunti, sia in prassi sia in spirito, all’amor vitae.
Il passaggio sul versante dell’ampia ed esaustiva componente dialogica dalla cultura iberica di riferimento allo scandaglio del gruppo etnico d’oltreoceano identificato negli White Anglo-Saxon Protestant (W.A.S.P.), seppur compartecipi delle composite connotazioni antropologiche dispiegate nell’intero pianeta, non paga dazio ad alcun tipo d’incongruenza. Le interpolazioni poste in essere rispetto all’ottima base costituita dal romanzo Attraverso la vita di Sigfrid Nunez, che si concentra sul pluralismo dei punti di vista fornito dal coro di voci differenti anziché solo ed esclusivamente sull’amicizia ritrovata della scrittrice di successo Ingrid e dell’ex corrispondente di guerra Thelma in procinto di coniugare la vita all’imperfetto per via dell’impietoso tumore, colgono nel segno. Giacché risultano perfettamente concordi con la propensione di Almodóvar ad accorpare con ragguardevole scioltezza la fenomenologia esistenziale all’indagine ininterrotta dell’animo femminile. Cementata dalla complicità muliebre garantita dalle copiose ed empatiche conversazioni in grado di sottrarre pure le modalità esplicative sul cupio dissolvi che incombe nel mondo, per colpa delle dispute ideologiche e del surriscaldamento globale, agli inutili ammiccamenti. Ad avere viceversa le polveri bagnate sono altri tormentoni dell’autore spagnolo. Rinvenibili soprattutto nel rapporto della solitudine morale con il passato. Sugli scudi nelle pellicole alle quali deve la fama. Che paga adesso dazio a un carattere troppo sbrigativo. Alieno ai toccanti panegirici avvezzi ad accrescere i confini della fertile fantasia miscelando la molla dell’ispirazione alla vigoria reminiscenziale. Anche la nota arguzia cromatica subisce una brusca battuta d’arresto: l’opera di giustapposizione dell’intensificazione dei raggi riflessi a braccetto coi vari omaggi floreali, che simboleggiano la bellezza da anteporre a qualsivoglia cupezza, e il grigiore del sentimento d’insicurezza del thriller spurio dovuto alla programmatica tanatofobia veleggia in superficie.
La paura serpeggiante della morte patita da Ingrid, che ha appena redatto un applaudito libro sull’atroce ed eterna incognita ritenuta un’ignominia per l’afflato vitalistico d’ogni creatura umana, accoppiata alla ferma decisione da parte di Thelma d’interrompere le cure oncologiche, evitando così l’onta dell’agonia, non fornisce infatti stimoli degni di rilievo all’utilizzo pittorico al servizio dei differenti sensori adoperati dall’occhio. Specie di Thelma. Catturato spesso dal proverbiale ricorso ai primissimi piani. Subordinati comunque all’uso virtuosistico del deep focus. Confacente al motivo principe del testo originario nell’associare l’aggiustamento dell’obiettivo al tremore della dignitosa malata che chiede alla custode ideale dei ricordi dell’età verde di vegliarla nella stanza accanto alla propria per addolcire il trapasso. Mentre i ragguagli sui fiocchi di neve descritti da James Joyce nell’epilogo dell’inobliabile The Dead – Gente di Dublino, tradotto per la fabbrica dei sogni dal gagliardo John Huston, finiscono con l’amalgamare il leitmotiv del rimando citazionistico allo stucchevole sensibilismo, benché autenticamente frutto del sacco dell’involuto Almodóvar al pari dell’inchino nei confronti della comicità metafisica di Buster Keaton, che strappa teneri sghignazzi alla coppia di amiche per la pelle in salotto davanti al televisore, la correlazione oggettiva delle due donne con l’ambiente circostante non paga dazio alle secche della retorica di circostanza. Risultano piuttosto persuasivi a tal proposito tanto gli sfondi newyorchesi, al di là dell’emblematico ed enfatico scintillio correlato ai fiocchi di neve resi rosa dall’inquinamento che cadono sullo skyline della Grande Mela, quanto la selva attigua all’abitazione nella Contea di Ulster selezionata per dare l’addio ghermito sin dall’incipit. Senza smarrire la lucidità necessaria ad assaporare l’ebbrezza dell’estremo soffio. Relegato all’incanto di un attimo.
La memoria del cipiglio pacifico profuso nelle zone d’insanabile conflitto, col vezzo del foulard in capo assurto alla bell’e meglio ad antidoto contro il funebre tasso di testosterone emanato dagli impulsi assassini, tradisce la scontatezza dell’intento didattico. La topofilia, intesa come l’assoluto amore per le location elette ad attanti carichi di significato, al contrario trascende la buccia spettacolare ed elementare degli scolastici bagliori di fiamma. Julianne Moore traligna invece il superbo gioco fisionomico che sciorina di regola in un’infeconda galleria di smorfie vezzose. Inadatte a garantire al personaggio della protettiva e fragile Ingrid l’opportuno spessore individuale ed etico. Tilda Swinton, all’opposto, incarna Thelma con la mirabile padronanza recitativa dell’attrice di rango. Ricavando linfa dal volto ossuto, ieratico ed eminentemente comunicativo. Indirizzato talora in linea retta alla macchina da presa, altresì nelle vesti della ravveduta figlia della reporter agli sgoccioli, a conferma d’una psicotecnica recitativa piena di risorse. Sfruttate a dovere da Almodóvar per trasmettere in maniera indelebile i brividi di chi, oltre a cercare nell’eutanasia un epilogo decoroso, ride, fra le lacrime, persino della spaventevole commare secca. Lo sforzo di tenere a freno l’abituale attitudine all’iconografia kitsch, variopinta, festosa pure nell’orrore del dolore, tramite il lavoro di sottrazione d’origine bressoniana, fuori dalle corde dei cineasti devoti alla solennità immediata ed elegiaca alla Via col vento, si rivela un’autorete. La snobistica sobrietà d’accenti, esibita alla stregua d’una meritevole inversione di tendenza, appare perciò unicamente di facciata. Sulla medesima falsariga dell’inverosimile trasmisgrazione spirituale sottesa all’iridescente tavolozza eretta dai raggi solari nel mix d’interni ed esterni della fatidica casa zeppa di vetrate col bosco limitrofo. La stanza accanto chiude dunque i battenti contrabbandando la scaltrezza illustrativa per sottigliezza meditativa e trascendentale. D’altronde, si sa, chi abbandona la strada vecchia per quella nuova…
Lascia un commento