Misurandosi per la terza volta nella duplice veste di attore gigionesco ed esperto e regista dal gusto avvertito, anche se non ancora in grado di convertire l’ampio spettro dei sentimenti messi a fuoco nell’emblematico afflato dell’esistenza, Daniel Auteuil alza comunque il tiro col legal drama transalpino La misura del dubbio. Riuscire a conciliare lo specifico carattere d’autenticità del New American Cinema che sembra cogliere la vita di sorpresa, svelando cosa accade dietro le quinte della Corte d’Assise in Francia, insieme al dotto ed evocativo pluralismo dei punti vista d’ascendenza pirandelliana, adottato per il grande schermo dal maestro giapponese Akira Kurosawa nel capolavoro Rashōmon, non è certo un gioco da ragazzi.
Identificandosi sino alla soglia dell’alienazione di antoniana memoria con il suo personaggio, un avvocato penale di notevole esperienza attanagliato dai rimorsi di coscienza ma ugualmente deciso a difendere l’ultimo cliente dall’accusa di omicidio ai danni della sbandata consorte dedita all’alcool, l’ambizioso ed eclettico autore-interprete scongiura il tangibile rischio di cadere nel ridicolo involontario, con il volto incollato di profilo dalle suggestive inquadrature ravvicinate, sull’esempio dello stilista visivo Michael Mann, per rendere “cool” l’aura contemplativa che sennò provoca parecchi sbadigli agli spettatori dai gusti semplici, per merito soprattutto dell’altera consapevolezza interiore della sua maschera. Nondimeno alla forza significante del ritratto fisionomico carico di senso dell’uomo di legge, profondamente persuaso dell’innocenza del proprio assistito, padre di cinque creature estraneo alla facondia dialogica giacché capace di parlare con gli occhi, non corrisponde affatto l’acutezza sottintesa nel titolo originale Le fil.
Quella fibra sottile che separa metaforicamente la verità dei fatti all’origine dell’intreccio dalla menzogna, chiamata in causa dal bieco istinto di conservazione, e che sulla scorta del color vermiglio allerta i tori ritenuti gli eroi della cosiddetta corsa camarghese, appare un espediente privo di sostanza. L’effigie della zona a sud di Arles, attraversata in automobile dal protagonista, con l’ordine naturale delle cose riprodotto dagli animali allo stato brado posto a confronto con l’ombra inquietante d’un atto premeditato, diametralmente opposto alla pulsione predatoria, denota senz’altro l’assoluta predilezione di Auteuil per la geografia emozionale. Il rapporto tra cinema e territorio però non riesce ad appaiarsi in maniera davvero coerente con la canonica dilatazione del tempo della narrazione. Che richiama alla mente l’ordinario mélo giudiziario Sotto accusa, impreziosito solo ed esclusivamente dalla magistrale performance di Jodie Foster, anziché la solerzia introspettiva degli apologhi psicologici intenti ad amalgamare ai valori plastici e pittorici quelli morali. Il valore informativo connesso all’iter processuale, con i consueti interrogatori, le reazioni mimiche e l’opportuna profondità di campo sugli scudi, per catturare particolari che esulano dall’ordinario, testimonia il miglior impiego degli interni rispetto agli esterni.
Auteuil infatti dietro la macchina da presa sa raccontare con maggiore pregnanza la scoperta dell’alterità, cioè il collegio costituito da giudici togati e popolari, dei luoghi remoti concernenti l’azione investigativa, connessa ai prevedibili flashback, di cui emerge una chiara conoscenza ex ante; davanti all’obiettivo della fabbrica dei sogni resta invece vittima dei compiaciuti vezzi di chi incarna un difensore stretto d’assedio dai premonitori incubi a occhi aperti. Il fitto mistero, svelato platealmente nell’epilogo, non ricava così alcun giovamento dai programmatici carrelli da destra a sinistra che indicano da copione l’insorgere di eventi imprevedibili. La misura del dubbio rispetto ad Anatomia di una caduta di Justine Triet manca pertanto di mistero, dell’agognata sottigliezza ed ergo della valenza impermeabile alla solita scrittura per immagini e irrazionale della meritevole poesia. Il ricorso al deleterio surrogato rinvenibile nell’inane poeticismo permea in tal modo la dinamica conclusiva del campo-controcampo disposto dal riflesso dello specchio nella prigione dove i nodi vengono al pettine. Evidenziando le idee attinte a thriller dall’appeal imparagonabile, come Il silenzio degli innocenti, e le polveri bagnate dei nani sulle spalle dei giganti in cabina di regìa.
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