La schietta ispirazione del sensibile ed eclettico poeta e scrittore capitolino Daniele Mencarelli nel romanzo d’esordio La casa degli sguardi, incentrato sull’egemonia dell’amor vitae sancito dalla dignità sociale ad appannaggio del lavoro sia pure umile sul cupio dissolvi connesso alla deriva autodistruttiva dell’alcolismo, persuade l’esperto attore romano Luca Zingaretti a esordire alla regia per portare sullo schermo un apologo sul bisogno di riscatto etico di sicuro effetto.

La scelta di misurarsi sia dietro che davanti l’ardua ma stimolante macchina da presa, nel ruolo del premuroso padre dell’irrisolto ventitreenne Marco, alter ego dell’alacre Mencarelli schiavo da ragazzo della bottiglia a dispetto del precoce talento coltivato sin dall’infanzia nel comporre elegiaci versi di struggente tenerezza, lo spinge altresì ad azzardare cifre stilistiche agli antipodi, per cogliere l’interesse d’un’ampia ed eterogenea fascia di spettatori, dalle platee dai gusti semplici al pubblico maggiormente avvertito, vestendo al contempo gli edificanti panni del genitore in grado di offrire l’idoneo sostegno al sangue del suo sangue.

I compositi stilemi adottati però alla bell’e meglio, allo scopo di dare un colpo al cerchio dell’immediatezza espressiva e uno alla botte dello scandaglio introspettivo, anziché consentire di leggere a più livelli la vicenda imperniata sulla presa di coscienza che cementa il decoro e consolida disparati piani di condivisione col mondo circostante, evidenzia una conoscenza sommaria dell’argomento in questione. Almeno rispetto all’autore letterario. Avvezzo comunque ad anteporre le parti narrative a quelle descrittive. Necessarie ad approfondire la fenomenologia psicologica di una dipendenza così lancinante insieme alle impietose forme di marginalità ed esclusione. Un tunnel da cui è molto difficile uscire. L’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici, con gli strali lanciati contro la società dai brani rapper che Marco ascolta alla guida dell’automobile paterna dopo aver distrutto la propria a braccetto con una colonna sonora incline all’enfasi di maniera, lascia qualche pulce nell’orecchio di chiunque rifugga dai vani segni d’ammicco. Incapaci d’inquadrare appieno il sottofondo di rassegnazione giustapposto al senso di comunanza della classe operaia in un ospedale come il Bambin Gesù dove spesso a coniugare l’esistenza all’imperfetto sono creature prive di malizia. Gli eloquenti silenzi, appaiati ai colpi di gomito delle impennate melense innescate dal ricorso ai buoni sentimenti, stentano così ad acquisire il rilievo decisivo di valore aggiunto all’analisi degli stati d’animo. In subbuglio dinanzi alle difficoltà iniziali d’inserimento nel team d’inservienti delle pulizie guidati dal comprensivo ed energico Giovanni. Il ticchettio sul vetro dovuto al pupo di colore che bussa dall’alto della finestra a Marco, dandogli del cornuto per scherzo, riesce ad amalgamare il richiamo all’innocenza con un apprezzabile sigillo d’autenticità. Sconfessato tuttavia dall’assillo di farsi seguire col cuore stretto.

Per i palpiti della commozione davanti a una mini-bara rosa. Per l’attanagliante alienazione della mosca da bar nel fiore degli anni di fronte ai bicchieri degli shoot svuotati con voluttà autolesionistica. Per le sprezzature d’umore del capo squadra con un tremendo lutto alle spalle. Per lo stesso omone dall’indole in ogni caso bonaria che si mangia con gli occhi i divertenti sketch comici dei cartoni animati in compagnia dei piccoli ricoverati ridendo di gusto. A differenza del libro, che elude la componente chiarificatrice dell’opportuno sottotesto, il film, benché l’affidi alle modalità esplicative dei dialoghi, invece di trasmetterlo attraverso la cripta dei gesti e degli sguardi menzionati nel titolo, lo carica di significato. Col risultato, nonostante ciò, di tralignare i debiti semitoni in languidi accenti. Ad eccezione del vernacolo romanesco. Che annulla le distanze e taglia corto quando le lagne vanno per le lunghe. Peccato che quest’impeccabile falsariga non redima l’attitudine ad amalgamare l’acutezza degli scontri e dei successivi incontri dell’inquieto Marco con l’avveduto Giovanni, nelle vesti del mentore dalla saggezza popolana avversa agli intellettuali pieni d’inutili pose, al pari dei copiosi momenti d’ovvia svenevolezza. Mentre dall’uso delle luci negli ambienti al chiuso e all’aperto, dall’ospedale alle discoteche, dalle alcove occasionali all’università della strada sempre prodiga di moniti utili, traspare un lirismo degno di nota, grazie altresì all’ottima padronanza dell’accorta correzione di fuoco, il ruolo catartico affibbiato alla poesia covata di continuo, declamata con riluttanza, veleggia in superficie. A non convincere è infatti l’elogio alla capacità di razionalizzare l’assurdo, incuneandosi nei meandri dell’animo umano, sulla base dello sprone ricevuto tanto dal guru coi piedi per terra quanto dalla virtù di togliere al visibile per privilegiare la potenza evocatrice dell’invisibile. Per congiungere rigore ed empiti d’affetto, ideali di solidarietà ed esiti pratici, ampia densità lessicale e linguaggio colloquiale occorreva un direttore d’orchestra versatile ed erudito.

A Zingaretti al debutto in una mansione tanto impegnativa, se non proibitiva per le possibilità concessegli, manca appunto l’assoluta dimestichezza dei battitori liberi della fabbrica dei sogni. Che conciliano il vigoroso risalto realistico degli incubi a occhi aperti con la complessità del rapporto dell’immagine con l’immaginazione. La pittura desolante convertita palmo a palmo in quadro confortante, con Marco avvinto dal redivivo vincolo di sangue nell’osservare da lontano il babbo che cura le piante nella loro terrazza ai Castelli, risulta, al contrario, estranea ai guizzi poliedrici ed empatici dei maestri della Settima arte. Lo sforzo profuso per rendere Marco esemplare di una specifica condizione che ricava linfa dalla condivisione e dalla compassione riflette la velleità dei pur onesti artigiani del grande schermo. Inclini ad aderire al ritratto smielato delle soap opere nella raffigurazione, viceversa, acre, genuina ed epidermica delle traversie dei cosiddetti “porelli”. Ricchi di spirito. Zingaretti, che impersona l’autista del tram deciso a impedire ai passeggeri logorroici di parlare col conducente e pronto ad accogliere il ritorno a Canossa dell’indocile rampollo, cede la ribalta ai valorosi caratteristi. Che divengono a buon diritto le incontestabili stelle dell’affresco dolceamaro. In particolare Federico Tocci. Al quale spetta la palma del migliore per l’interpretazione di Giovanni. Condotta in linea con il passionale e delicato ritratto che contrappone la mutevolezza dell’esistere all’immutevolezza dell’essere. La dimensione attiva raggiunta in zona Cesarini dal passivo protagonista, con il supporto costante dei due indefessi punti di riferimento, paga dazio all’inzuccherata recitazione sopra le righe dell’acerbo Gianmarco Franchini. Che incarna in chiave roboante e scolastica il compositore in erba bisognoso di vincere l’angoscia del disadattamento. La casa degli sguardi, in ultima istanza, accosta la trasformazione della cupa introversione nella prodiga estroversione all’involuzione che tramuta la crudezza oggettiva in ampollosità consolatoria. Ed esemplifica quindi il dato radicale dell’anormalità e l’ipnotica cognizione concernente l’ordine naturale delle cose.


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