Dopo aver fornito in Ripple of life una tangibile prova della propria cifra stilistica, volta ad amalgamare l’assoluta crudezza oggettiva e l’utopica fuga dell’attanagliante realtà insita nella fabbrica dei sogni attraverso una costruzione narrativa a tre stadi per sancire il carattere d’allegoria sulla scorta del gioco a scatole cinesi d’un mix d’incastri esistenziali ed echi di sicuro richiamo presso i cinefili di provata fede, l’ambizioso regista Wei Shujun batte sullo stesso chiodo con Il mistero scorre sul fiume. All’interazione speculare tra l’austero realismo del vivere quotidiano e l’elegia esistenziale, che affonda invece le radici nella tragedia greca, fa seguito la forza significante della lapalissiana dicotomia buio/luce e interno ed esterno. Le interpolazioni poste in essere rispetto al romanzo Errore in riva al fiume di Yu Hua passano appunto attraverso la resa espressionistica di questi contrasti mirati. Inclini ad accrescere la potenza evocativa del genere hard boiled per mezzo dell’ennesima vicenda legata a plurimi omicidi e alla tipica atmosfera piovosa connessa all’indagine poliziesca.

La teatralità imperante nell’ufficio investigazioni, la vena grottesca che serpeggia nell’effigie degli ufficiali in alta uniforme decisi spesso ad anteporre la levità ludica del ping pong al gravoso compito di consegnare alla giustizia il tetro serial killer, le pose virili del detective Ma Zhe, chiamato ad assolvere l’arduo incarico, la corrispondenza tra musica diegetica ed extradiegetica non sovvertono certamente la tavola dei valori di un genere ormai trito e ritrito. La suggestione formale mostra così presto la corda. Il fascino dell’enigma dura infatti lo spazio d’un mattino al pari della suggestione esercitata dalla geografia emozionale. Con i paesaggi acquitrinosi lungo il fiume, teatro silente secondo copione di raccapriccianti delitti, che portano un contributo stringi stringi piuttosto marginale. Persuadono maggiormente gli ambienti domestici, i luoghi al chiuso, la saletta in cui grazie ad apposite diapositive Ma Zhe conduce la ricerca della verità nei binari dell’amatissimo metacinema. Lontano però dall’ingegno creativo dei capolavori, alieni ai segni d’ammicco, che scandagliano in profondità tanto le radici ataviche del male quanto quelle dello sgomento giornaliero. Rimestare palmo a palmo gli stilemi dei polar francesi, adattati al momento storico alle soglie del nuovo millennio quando il Catai caro a Marco Polo antepose un proficuo regime di crescita al vecchio socialismo, equivale quindi ad assemblare meri stereotipi anziché a convertire lo zelo scenografico in fulgida invenzione figurativa.

Pure la scrittura per immagini, servendosi della pur diligente fotografia, pesca nell’ovvio puntando sulle vetuste soluzioni luministiche delle opere a tesi. In tal modo l’auspicato percorso labirintico dell’apologo sulle ipotesi e gli imperativi d’ogni era, moderna ed eterna, va a carte quarantotto. Svilito dalla voluttà di associare il febbrile bisogno di chiarezza alle velleitarie correzioni di fuoco. Resta all’attivo l’intensa performance del convincente Yilong Zhu nei panni ora baldanzosi ora dimessi di Ma Zhe. Pronto a sfoggiare il saluto militare a caso risolto ma costretto ad accettare la volontà della moglie di portare avanti la gravidanza a rischio. Mentre il corto circuito onirico che precede il finale stenta a riprodurre l’atmosfera del sogno necessaria a rendere appieno il tumulto interiore di chi assorbe nei meandri dell’anima l’egemonia del ribrezzo sull’appeal dell’enigma, tutto da svelare, il versante intimistico coglie abbastanza nel segno. Non al punto comunque da impedire al modesto noir Il mistero scorre sul fiume di tralignare l’ambita ed energica poesia in soporifero poeticismo.


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