Deciso a riunire in un certo qual modo l’affiatato terzetto recitativo formato assieme ad attori del calibro di Michael Pitt e Steve Buscemi nell’applaudita serie televisiva Boardwalk Empire – L’impero del crimine, dove impersonava il reduce di guerra dal volto sfigurato, Jack Huston, nipote del grande regista statunitense John Huston nonché figlio dell’intensa ed esperta attrice Angelica Huston, esordisce sul grande schermo dietro la macchina da presa con Il giorno dell’incontro.

L’ennesimo apologo sulla tenacia connessa all’elegia della cosiddetta noble art. Buon sangue non mente? La risposta va ricercata nella capacità, o nell’incapacità, di riuscire ad anteporre una rappresentazione artistica al trattamento sommario delle pellicole avventizie che, spesso e volentieri, scopiazzano sottobanco il carattere d’ingegno creativo dei maestri conclamati. Dall’illustre nonno, autore tra gli altri cult movie dell’appassionante Fuga per la vittoria, imperniato sull’egemonia dello spirito agonistico profuso dal gioco del football all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, non sembra aver voluto prendere nulla.

Ed è sintomo già di carattere. Per quanto concerne l’ingegno bisognerà probabilmente attendere la prossima fatica. Il ricorso all’evocativo bianco e nero al momento privilegia l’inane segno d’ammicco della forma, e quindi dell’apparenza, alla sostanza. Ed ergo all’irrinunciabile rilievo contenutistico. Nella giornata particolare del combattente in odore di riscatto Mickey interpretato con innegabile destrezza da Michael Pitt, seppur diversa da quella dell’omonimo capolavoro realizzato dall’arguto ed erudito Ettore Scola, il succo della vicenda è comunque meritevole d’attenzione. Mentre lo stantio concetto di redenzione connesso al percorso di resilienza compiuto uscendo dal carcere, per tornare ad indossare i guantoni, paga dazio al vano déjà vu, distante perciò anni luce dalla fragranza dell’originalità, il tema della malattia affrontata dall’uomo di sport, tenendola nascosta sulla falsariga dapprincipio del compianto ex calciatore Gianluca Vialli che s’infilava un maglione sotto la giacca per non dare adito a sospetti del genere, risulta meno vetusto. Almeno nel buio della sala. L’enfasi di maniera, tradita dal ripiego sin dalle battute iniziali nel plateale slow motion giustapposto in chiave programmatica al dinamismo del training mattutino, è compensata in buona parte dall’interazione tra habitat ed esseri umani. Sebbene la correlazione oggettiva dell’atleta con il territorio d’appartenenza, che coincide secondo copione con l’anima outsider dell’hinterland, tragga troppo partito da Fronte del porto e Rocky per approfondire motu proprio lo specifico studio d’ambiente, che infatti si ferma in superficie, la geografia emozionale contribuisce lo stesso ad alzare l’asticella. Specie rispetto alla grossolana modalità esplicativa dei vari hit musicali – con Blues run the game di James Franck sugli scudi – che sviliscono la forza significante di alcuni eloquenti silenzi.

Il mix d’interni rivelatori ed esterni crepuscolari invece consente al pur acerbo timbro ritrattistico di trascendere l’impasse dei ricatti figurativi. Bastano e avanzano i ricatti sentimentali congiunti ai ridondanti versi di acclamate canzoni tipo Have you ever seen the rain? che velano l’occhio di lacrime al pubblico avvezzo a confondere l’ovvio corredo dei consueti affanni regrediti in lagne coi densi elementi drammaturgici degli avvertiti affreschi esistenziali. Qualche valida freccia al proprio arco Il giorno dell’incontro dimostra in ogni caso di possederla e di saperla scagliare al momento giusto. Soprattutto quando associa la dolente dignità del protagonista redento all’effigie riflessiva delle strade periferiche. Sebbene la simbolica resa cromatica, attinta ad American History X anziché al film sul pugilato più applaudito dalla critica, Toro scatenato, stenti a convertire il valore plastico ravvisabile nel distintivo taglio delle inquadrature in un inossidabile valore introspettivo, giacché la lapalissiana messa a punto d’ascendenza classica si esaurisce stringi stringi in una mera strizzatina d’occhio, le emblematiche ombre reminiscenziali unite agli accorti piani temporali – col cortocircuito liricizzante legato ai ricordi del consorzio domestico mandato a gambe all’aria – spingono persino lo spettatore meno propenso a palpitare per i rimpianti appena sussurrati da Mickey a un tiro di schioppo dall’agognata rentreè sul ring del Madison Square Garden. Alla memoria ferita dispiegata tramite gli opportuni flashback corrisponde il confronto sia con l’amico di famiglia incarnato sulla scorta della proverbiale incisività da Steve Buscemi sia con l’allenatore. Al quale il sobrio ed eclettico Ron Perlman presta la sua rocciosa e irregolare maschera carica di fulgida umanità.

Lo spettacolo di secondo rango della recitazione sovrasta quindi lo spettacolo principale costituito dall’ancora instabile cifra stilistica ed espressiva. Ne dà piena conferma la sequenza in cui Mickey si confronta con l’autocrate padre costretto dall’insorgere dell’inclemente terza età a comunicare solo ed esclusivamente con gli occhi sull’esempio dell’imbelle genitore dell’indocile pianista in Cinque pezzi facili di Bob Rafelson. La bravura di Joe Pesci nei panni del vecchietto divenuto muto non nasconde bensì accentua l’impasse dell’eclatante nano sulle spalle dei giganti. Non quelle però di nonno John nella parabola antropologica ed etnografica Città amara – Fat city. Con il mondo della boxe, scandagliato sempre attraverso il rimpianto del passato e la speranza del futuro, impreziosito tuttavia dalla virtù di conferire alla conoscenza intima della materia narrativa l’assoluta potenza dell’illustrazione frammista all’inusitata sottigliezza poetica. La velleità viceversa di mettere, per dirla alla Celentano, una carezza in un pugno tradisce l’erede universale nel momento di tirare le somme. L’infeconda smania di ottenere l’empatico assenso delle masse dai gusti semplici, ghermiti dal meticoloso processo d’identificazione cementato step by step, raggiunge l’apice durante l’attesissimo match. Ed è lì che i nodi vengono al pettine. A Il giorno dell’incontro non manca sicuramente l’indispensabile polso di chi in cabina di regia governa i diversi fattori che concorrono alla riuscita di un’opera d’onesto intrattenimento. Ad apparire latitante è al contrario la marcia in più dell’autore tout court chiamato ad accorpare vigoria rappresentativa ed estro immaginifico. Ad maiora.


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