“Ti chiedi se sei pazzo? Ti fai la domanda sbagliata, non devi chiederti se sei pazzo ma se gli altri credono che tu sia pazzo”.
Mettere in scena la follia, la paranoia, la schizofrenia, i disturbi mentali, è una cosa che il Cinema fa dai suoi albori. Non starò qui ad elencarvi tutti i vari Norman Bates della storia della pellicola perché non credo ce ne sia bisogno, ma arrivo direttamente al 2006, quando il regista, sceneggiatore e produttore ultra sperimentale torinese Louis Nero ci regala la sua personale visione di questa scottante e stra abusata materia, ispirandosi al capolavoro del grande scrittore praghese Frank Kafka, La Metamorfosi, classe 1915. Nasce quindi Hans, terzo lungometraggio di Nero, sovrabbondante di cultura classica come lo era stato anche il suo debutto del 2000, Golem, ispirato ovviamente alla leggendaria figura della mitologia ebraica legata alla Cabala ed al folklore medievale. Nero è un autore dagli ampi orizzonti, un dotto del cinema, ed infarcisce di erudizione tutta la sua opera, talvolta rischiando di risultare addirittura ridondante agli occhi del semplice profano in cerca di horror dalle emozioni a buon mercato, ma certamente degno di nota nel piattume privo di idee e di originalità che spesso contraddistingue la scena di genere post duemila, ovviamente con le dovute eccezioni. Hans non va visto quindi, come indicato sul retro del dvd, come “un film che lascia con il fiato sospeso fino alla fine”, perché non è così. È un film lento, concettuale, astratto, dove in realtà non succede quasi nulla, ma è un’opera ambiziosa e destrutturante che certamente non può non lasciare il segno, che alla fine sia piaciuta oppure no.
“Siamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non tutti hanno lo stesso orizzonte”: così ha scritto sulla lavagna la maestra della classe di Hans, bambino portatore di gravi disturbi psichici che vengono aggravati dall’atteggiamento dei genitori, che invece di aiutarlo e curarlo lo picchiano e colpevolizzano di tutto. Cresciuto con una madre che lo induce ad una visione completamente distorta del sesso e dell’amore, finirà a lavorare in una ditta di smaltimento rifiuti dove scoprirà che di lì a breve l’unico modo per non essere sommersi dalla spazzatura sarà far mangiare la nostra immondizia a dei grossi insetti, tipo delle blatte necrofore che poi finiranno nei nostri piatti come cibo. La relazione malata con Rita e la fobia di dover mangiare la sua propria lordura e quella degli altri, soprattutto i “negri”, sotto forma di enormi insetti, porterà la già precaria mente di Hans a prendere il volo, a crearsi una realtà alternativa dove visioni ed immagini reali si mescolano ogni giorno di più, estraniandolo così dal mondo nel quale stava con fatica cercando di reinserirsi dopo anni ed anni di terapia.
Hans è un giovane uomo in terapia. Ma a curarlo è nientemeno che il prof. Sigmund Freud in persona … possibile? E chi lo sa … Non si sa cosa sia vero e cosa no, in questa pellicola, cosa sia generato dai meandri della mente di Hans e quale che sia invece la realtà nella quale egli si trova a vivere. Perché insomma, non c’è solo Freud, qui, ma anche Carl Gustav Jung, e giudici togati ed imparruccati di cui uno ha i magnetici occhi azzurri dell’attore Franco Nero, che diverrà poi un habitué delle pellicole del regista torinese, partecipando ai successivi La Rabbia (2008), Rasputin (2011) e The Broken Key (2017). Ma torniamo al nostro Hans. Già dall’inizio si percepisce da parte di Louis Nero la ricerca di un tipo di regia in qualche modo raffinata, che si mischia all’uso della poesia e ad una costruzione della scena quasi teatrale. Tuttavia l’incipit risulta un po’ lezioso ed un po’ troppo lento, e si perde l’ingrediente accattivante che invoglia la maggior parte del pubblico a rimanere davanti allo schermo. Però Nero sa il fatto suo, credo sia perfettamente conscio che l’inizio non proprio adrenalinico del film sarebbe potuto essere una nota negativa di partenza, ed allora ci mostra subito il suo asso nella manica, lo splendido attore emiliano Franco Nero, qui nei panni di un barbone, forse lo stesso Hans da vecchio, che ci racconta dei lunghi anni vissuti all’interno di un terribile ospedale psichiatrico dove succedeva di tutto e di più. Racconti allucinanti, dolorosi, che ci introducono nel clima alienante che domina tutto il film, facendo in modo di bypassare un certo modus registico che non ha ottenuto, a mio parere, risultati particolarmente convincenti.
Che Louis Nero conosca la materia filmica a fondo è assolutamente indubbio, tanto che, dopo una laurea al DAMS, diviene membro permanente della giuria dei prestigiosi David di Donatello e dell’EFA, l’Accademia Europea del Cinema. Hans è il suo terzo film che riflette sul linguaggio cinematografico, tuttavia, secondo il mio modesto parere, infarcisce un po’ troppo le immagini di richiami culturali ed esoterici, basandosi su un simbolismo che lui conosce molto bene, come già ci aveva dimostrato in Golem, ma che a lungo andare può risultare beffardo e supponente anche agli occhi di uno spettatore che non è propriamente digiuno in materia. Ed allora ecco che la grande tavola dove si riuniscono Hans ed i suoi colleghi di lavoro per parlare del futuro dello smaltimento dei rifiuti (che tutti chiamano “merce” tranne lui) diviene simile a quella dell’Ultima Cena, con le coppe simil Graal al posto dei normali calici di vino. Chi dovrà, stavolta, immolarsi sulla croce dell’umanità? Tutti, pensa Hans, ma non lui, novello Giuda che da quel convitto di folli mangia-insetti si dissocia, si discosta da un mondo che non va bene, dove la gente tira avanti solo perché ha il prosciutto sugli occhi, ma che, se interpellata, si dice scontenta eccome. Hans, quindi, probabilmente, non è un vero folle, ma una sorta di razzista universale, che odia tutta la società nella quale si trova inserito e con la quale non condivide nulla, e quindi combatte ogni idea sociale: gli altri notano in lui questa stranezza, questa diversità, questo suo andare fuori dai binari precostituiti, e lo considerano pazzo, portandolo a rinchiudersi in una realtà altra per scappare a quella malsana e corrotta in cui vive.
Per ottenere questa realtà parallela Louis Nero, che oltre ad aver scritto, girato, montato e prodotto il film con la sua L’Altrofilm, ne è anche direttore della fotografia, adotta delle tonalità buie e scure con colori che virano dal blu al rosso scarlatto, ma anche ai grigi delle albe soffocate dal tanfo dei rifiuti, che ben si adattano alle atmosfere kafkiane che si vogliono riprodurre. L’esoterica Torino, che insieme ad Asti è set privilegiato del film, collocando Nero tra i paladini del capoluogo sabaudo insieme a nomi di altri giovani registi dell’underground piemontese come Pupi Oggiano, Luca Canale Brucculeri, Emiliano Ranzani e Federico Lagna, strizza l’occhio in maniera impressionante alla Praga dell’autore de La Metamorfosi, ma abbandonando la propria eleganza austera per diventare un vero e proprio immondezzaio a cielo aperto, come ad esempio nella bella scena girata sul vicoletto che si trova dietro al Museo Egizio che, riempito di sacchi neri, non appartiene più al salotto bene della città, ma ne diventa la sua discarica. Particolarmente evocative risultano poi le scene girate sotto i portici del famoso manicomio di Collegno (To). Anche agli attori viene suggerito un registro recitativo sopra le righe, irreale, proprio per continuare nell’intento della costruzione dell’Altrove nel quale Hans si rifugia. Guidati dalla profonda e magica voce di Luca Ward, i personaggi sembrano usciti da una qualche fiaba oscura, a partire da Hans ovviamente, interpretato dal bravo attore carmagnolese Daniele Savoca, che oltre a poter essere considerato il feticcio di Louis Nero ha sulle spalle un ottimo bagaglio di successi sia teatrali che televisivi. Spesso con gli occhi cerca lo spettatore, infrange la quarta parete, sembra volerci tirare dentro al suo incubo, per salvarci, forse, da quello vero in cui viviamo. Al suo fianco la ronconiana Simona Nasi, nel ruolo non semplice della sua innamorata, il recentemente scomparso attore teatrale Eugenio Allegri, che di lì a poco calcherà anche set prestigiosi come quelli di Marco Tullio Giordana, Dario Argento e Alessandro Siani, ed ovviamente il già più volte citato Franco Nero, paladino ormai da tempo dei giovani registi nei quali vede giustamente il futuro del nostro cinema.
Insomma, le idee non mancano a Louis Nero, ma l’eccessivo simbolismo fa pensare a tratti che il regista volesse dirigere più un trattato di psicologia che un film vero e proprio. Se non lo si guarda con gli occhi giusti, Hans sembra un film che non ha né capo né coda, privo di sceneggiatura, farneticante, senza una storia. Tuttavia non è così. Nero vuole entrare dentro il labirinto della follia, vera o presunta che sia, e lo fa senza pensare ad accattivarsi o ad appassionare lo spettatore, ma solo perseguendo il suo scopo, potremmo quasi dire, didattico, quasi a volerci, appunto, proporre un documentario sugli effetti della follia devastante. Le musiche stesse, del compositore torinese Tiziano Lamberti, ossessive e ripetitive oltre ogni immaginazione, concorrono molto bene a far entrare chi guarda nella crescente spirale di pazzia del protagonista, e, sebbene non lascino particolarmente il segno, sono tuttavia completamente consone al tipo stesso di girato che Nero ci propone. Riprende facendo finta di non saperlo fare, burlandosi dello spettatore, facendogli credere di girare come farebbe col filmino delle vacanze, ma l’erudizione che trapela da ogni poro del suo Hans ci fa chiaramente capire che questo tipo di regia è assolutamente ricercato, è dismesso ad arte, per rappresentare quel mondo oltre il nostro dove tutto deve stonare per risultare vero, reale, autentico. Basti solo l’impianto scenico di tipo teatrale, più o meno riuscito, a farci capire quanto lavoro c’è dietro questo tipo di riprese all’apparenza amatoriale. Si ricerca una costante atmosfera psicotica, e si centra il bersaglio. A tratti sembra di guardare uno degli incubi lovecraftiani di Ivan Zuccon, come ad esempio L’Altrove (2000) o Herbert West Reanimator (2017), ma escono fuori anche spunti lynchiani, ovviamente intuibili nella bella scena del nano che tanto ricorda quello di Twin Peaks interpretato dall’ipnotico attore Michael J. Anderson, ma anche nello stesso impianto allucinato ed allucinatorio di tutta l’opera, molto simile a quello del primo lungometraggio del grande David Lynch, quell’Eraserhead del 1977 che fu realizzato nell’arco di ben cinque lunghi anni. In alcuni momenti, perché no, si trova anche il posto per qualche omaggetto paraculo ai grandi classici dell’horror statunitense, come certamente all’episodio Strisciano su di te del leggendario primo Creepshow di George A. Romero e Stephen King, classe 1982, dove un uomo misofobico vive rinchiuso in un asettico appartamento nel costante terrore di essere sopraffatto dagli scarafaggi. E come non notare la culla nera, simbolo per eccellenza del capolavoro polanskiano del 1968 Rosemary’s Baby, nel quale piange un essere che ricorda in tutto e per tutto il deforme mostriciattolo Belial che l’aitante fratello porta in giro per New York in Basket Case di Frank Henenlotter (1982)? Ed infine, il nostro Hans non può non richiamare alla mente uno dei folli letterari più belli arrivati sul grande schermo, il Renfield del Dracula di Bram Stoker (1897), interpretato nel tempo da attori del calibro di Klaus Kinski e Tom Waits, che amava passare il tempo … cibandosi di insetti!
Il giudice interpretato da Franco Nero sul finale, discolpando Hans per aver picchiato e violentato dei “negri”, sottolinea che se si dovessero rinchiudere in manicomio tutti i bianchi un po’ nervosi non ci sarebbe più posto in nessun manicomio della terra, mentre invece i “neGRi”, calcando bene lo sprezzante GR, devono essere schiacciati tutti come insetti, ma stando attenti, perché la manodopera nel nostro paese non è a maggioranza bianca. Con queste ultime, caustiche affermazioni, Nero chiude in maniera quanto mai esplicita la sua feroce critica alla società dei controsensi e dell’ipocrisia in cui siamo, ahimè, obbligati a vivere, a meno che non si decida di cogliere il suggerimento di Hans, scappando non con le nostre gambe, ma con la nostra mente, verso un microcosmo ideale che però, dubito, potrebbe darci chissà quale e quanto sollievo.
Ben vengano operazioni come quella di Louis Nero, quindi, perché il Cinema non ha bisogno solo di slasher al cardiopalma o jumpscares a buon mercato, ma anche di un po’ di sana erudizione.
Lascia un commento