L’arguto ed estroso regista franco-maliano Ladj Ly era riuscito nell’applaudita opera d’esordio, I miserabili, ad adattare la toccante poetica di Victor Hugo in merito ai paria, confinati ai margini della società transalpina senza trarre esempio dagli ideali di fraternità della rivoluzione del secolo precedente, all’attualità multietnica. La conoscenza intima della materia trattata, rinvenibile nel dibattuto rapporto tra habitat ed esseri umani e in particolare nell’università della strada frequentata nell’età verde lungo le banlieue di Montfermeil, alla periferia di Parigi, dove venne al mondo anche il nume tutelare Victor Hugo, ne ha consentito la legittima elezione ad autore con la “a” maiuscola. Grazie altresì all’indubbia capacità di amalgamare compiutamente il dinamismo dell’azione caro a Samuel Fuller col sagace ed erudito pluralismo dei punti di vista d’ascendenza pirandelliana che sul grande schermo ispirò il maestro nipponico Akira Kurosawa in Rashomon.

Chiamato a confermarsi definitivamente nel secondo film di strada Gli indesiderabili, sempre incentrato dunque sul denso ed evocativo rapporto tra cinema e territorio, Ladj Ly muta segno per un verso e batte sullo stesso chiodo per un altro. Lo scandaglio antropologico ed etnografico si modella all’inizio sull’aggraziata scrittura per immagini di Peter Weir in Witness – Il testimone. L’effigie dei pertugi e degli altri particolari analoghi all’interno del Bâtiment 5 si va ad appaiare alla necessità espressiva dei campi lunghi che mostrano l’imponenza del palazzo dell’hinterland simile sotto molti aspetti al Serpentone del Corviale a Roma. Nei micro-appartamenti, stipati oltre il limite possibile, dilagano perciò miseria e degrado. Con gli ascensori fuori uso da tempo immemorabile. L’ennesimo programma di recupero del quartiere dormitorio funge da pungolo per lo slancio idealistico della giovane archivista Haby. Un’immigrata malesiana di terza generazione decisa a mettere con le spalle al muro Pierre, il successore del vecchio sindaco deceduto poco prima di ordinare la demolizione dell’ennesimo baraccone di cemento in cui però la povera gente ha comunque un riparo domestico, e a convertire le ciance sui piani di ristrutturazione urbanistica in fatti concreti.

I loro bisticci dialettici, con lei portavoce del vetusto moralismo radicale connesso però ai vincoli sia di sangue sia di suolo e lui smanioso di trovare una scusa contemplata dalla legge per cacciare via i reietti dal palazzone degradato, risultano assai risaputi. Invece di cogliere nei modus operandi agli antipodi un riverbero d’autenticità con cui conferire alla contemplazione del reale la tenuta drammatica ed empatica dei migliori apologhi sociali a stelle e striscie degli anni Settanta. Nondimeno l’involuto Ladj Ly trae partito questa volta più dai modelli d’oltreoceano che dall’esperienza personale. La vena d’angoscia che percorre l’intera vicenda risulta perciò priva della fragranza dell’originalità. Che consiste pure nel captare le affinità elettive con un gigante della letteratura come Victor Hugo ricavandone la sintesi fulminante per imprimere al drone d’un bimbo spaurito nell’ingegnoso finale del previo action movie il punto di vista definitivo, dall’alto, alla stregua dell’occhio dell’Onnipotente, d’una storia di scontri violenti ed empi soprusi. Nonostante la destrezza mimica dell’affiatato ed eclettico cast, specie –  da copione –  Anta Diaw nei panni di Haby e Alexis Manenti nelle vesti del primo cittadino pusillanime ma cinico, gli esami comportamentistici veleggiano nella superficialità che spersonalizza l’allarme destato dai machiavellici stratagemmi posti in essere nelle stanze dei bottoni.

La rappresentazione del potere nel municipio risente quindi d’una messinscena piuttosto manieristica. Lontana parente di quella colma d’umori divergenti, che covavano sotto le ceneri, ne I miserabili. Avviandosi al capitolo conclusivo, con la bonomia dell’atmosfera natalizia costretta a cedere il passo al clima d’ostilità dell’autocrate sgombero ordinato dal sindaco una volta trovato il pretesto, Gli indesiderabili acquista la tensione del thriller tenendo sui carboni ardenti gli spettatori dapprincipio annoiati dalla prevedibile descrizione dei contesti pubblici e privati. L’innesto della suspense in extrema ratio stenta comunque ad accrescere la coscienza civile del pubblico maggiormente avvertito. Consapevole tanto che bisognerebbe allungare le gambe a chi le ha corte anziché accorciarle a chi le ha lunghe quanto che l’egemonia del livellamento ugualitario sui dati realistici, impreziositi da uno schietto tocco autoriale, genera le medesime banalità scintillanti dell’infeconda propaganda. Ad maiora, Ladj Ly.


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