Flavia Gaetani è un personaggio che si colloca tra storia e leggenda. Sembra che fosse la bellissima figlia del governatore di Reggio Calabria Don Diego Gaetani, il quale, nel 1543, si trovò a dover fronteggiare l’invasione turca guidata dal corsaro Khayr al-Dīn Barbarossa, noto ai cristiani come Ariadeno Barbarossa, al soldo del sultano Solimano il Magnifico. Rifugiatosi nel Castello Aragonese coi suoi uomini e la sua famiglia, il governatore si salvò, a quanto sembra, solo perché il Barbarossa, espugnata la fortezza, si innamorò perdutamente di Flavia, e promise di lasciare in pace la sua gente se ella si fosse unita a lui. La giovane, non si sa se di buon grado o no, decise di sposare il corsaro, rinnegando la fede cristiana e divenendo quindi musulmana, salvando così parte della sua gente. La sorte della donna, dopo la morte del marito, è ignota, e le leggende vogliono che il suo fantasma infesti ancora l’imponente Castello Aragonese.
Sulla base di questo fatto, diciamo così, storico, il regista emiliano Gianfranco Mingozzi dirige nel 1974 lo stravagante dramma a tinte horror-erotiche Flavia, la Monaca Musulmana, interpretato dalla magnetica Florinda Bolkan. Per rendere più pruriginosa la vicenda, la figlia di Don Diego non viene quindi rappresentata come una fanciulla laica, ma come una giovane costretta in convento dal padre contro la sua volontà, che desidera quindi scappare più lontano possibile, ribellandosi all’abito ed ai voti impostile con violenza e senza tener minimamente conto dei suoi desideri. La sceneggiatura, scritta a quattro mani dallo stesso Mingozzi con Fabrizio Onofri, Bruno Di Geronimo e Sergio Tau, colloca le vicissitudini della bella Flavia ancora più indietro nel tempo, alla fine dell’epoca medievale, nel 1480, quando un’imponente flotta turca, guidata da Maometto I, voglioso di riscatto dopo la presa di Costantinopoli, prende il mare da Valona alla volta della Puglia, sbarcando infine ad Otranto, che viene messa a ferro e fuoco, lasciando una pesante cicatrice nella cultura di massa di tale zona. Dall’incrocio di queste due terribili vicende storiche, Gianfranco Mingozzi e compagni traggono una sceneggiatura confusionaria e talvolta completamente priva di nessi e legami, ma che comunque intriga, sebbene non sia in fondo né carne ne pesce, avendo poco sia di biopic che di dramma, sia di erotico che, ancora meno, di horror.
La bella Flavia è costretta dal padre a farsi suora. Tuttavia non ha alcuna vocazione religiosa, e durante le preghiere con le consorelle si distrae spesso per guardare gli affreschi della chiesa che rappresentano santi e cavalieri; uno di questi sembra diventare reale e sorriderle, ed ella ricambia il sorriso affascinata e quasi rapita. Disgustata dal modo in cui gli uomini si servono delle donne esattamente nella stessa maniera degli animali, Flavia tenta più volte di scappare, coinvolgendo nella fuga anche quello che lei reputa il suo unico amico, l’ebreo Abraham, il suo uomo di fiducia messole a servizio dal padre. Ma la svolta della sua vita avverrà quando ad Otranto sbarcheranno le truppe musulmane, saccheggiando e distruggendo tutto ciò che trovano al loro passaggio. Tra essi Flavia riconoscerà il cavaliere delle sue visioni mistiche proprio nel loro capo, l’arabo Ahmed, che segue volentieri pur di lasciare l’odiato convento e l’odioso padre. Ma non si limiterà a seguire l’uomo che ama, rinnegando il suo credo e passando alla fede musulmana: la giovane, talmente disgustata dalla società in cui è vissuta, vedendo i Turchi come dei liberatori dalle angherie, aprirà loro le porte della città e del convento, incoraggiandoli ed aiutandoli a trucidare la sua gente e le sue consorelle. Ma, come ci si può immaginare, il finale sarà ben diverso da quello che l’ingenua Flavia, probabilmente, si aspettava.
Flavia è una femminista ante litteram, una sorta di Giovanna d’Arco al contrario. La pellicola è decisamente scottante per l’epoca, troppo avanti coi tempi, tanto da essere stata decisamente massacrata dalla censura, che, oltre ad imporle il divieto ai minori di 18 anni nelle sale, ne impose il taglio di tantissime scene, per lo più di carattere erotico, soprattutto nel convento, per il reato di vilipendio alla religione. E se certamente il film di Mingozzi non è proprio un inno alla chiesa ed alle istituzioni religiose, tuttavia l’intento del regista era quello di raccontare la condizione delle donne nel tardo medioevo, alle quali il giogo e l’oppressione clericale certo non giovavano e non ne favorivano l’emancipazione. Le ossessioni oniriche della protagonista ben sottolineano gli stati d’animo di una giovane costretta contro la sua volontà a rinunciare al sesso, alla vita mondana, all’amore di un marito e di un figlio, per doversi adattare ad una vita di clausura in convento, lontana da tutto ciò che è materiale. Ma lo spirituale non si può imporre, sembra volerci dire il regista, ed alla fine l’animo irrequieto di Flavia pare avere la meglio, ma il mondo in cui ha avuto la sfortuna di nascere non è ancora pronto alle forme di libertà che questa eroina sui generis sembrerebbe auspicarsi per tutte le donne.
Girato prevalentemente in Puglia, negli scorci suggestivi di Trani, Barletta ed Ostuni, presenta anche alcune scene girate a Tarquinia. Gianfranco Mengozzi, assistente alla regia di Federico Fellini ne La Dolce Vita (1960), dopo un diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, si dedica principalmente ai documentari, e nel 1962 realizza il primo documentario filmato sul tarantismo, La Taranta, appunto. Proprio da un episodio di tarantismo in chiesa sembrano prendere profeticamente avvio gli eventi che porteranno alle vicissitudini di Flavia e delle sue consorelle. Nel cast, e non poteva essere diversamente, emerge sovra tutti la splendida attrice brasiliana Florinda Bolkan, che all’epoca aveva già vinto due David di Donatello come attrice protagonista per Anonimo Veneziano (1970) e Cari Genitori (1973) di Enrico Maria Salerno. La Bolkan, col suo sguardo magnetico e seducente, criptico ed enigmatico, aveva anche dimostrato di essere adattissima in ruoli ambigui e fuori dalle righe, come quelli di Carold Hammond o della Maciara nei due thriller di Lucio Fulci Una Lucertola con la Pelle di Donna (1971) e Non si sevizia un Paperino (1972), e riesce a portare un po’ di questa ambiguità nella sua Flavia, donna forte che non accetta di dover essere sottomessa alle barbarie maschili e di non poter vivere la sua vita liberamente. Il giogo e le costrizioni impostile dalla società in cui vive la porteranno a diventare crudele e feroce, fino ad autorizzare col sorriso di vittoria sulle labbra la morte e la tortura delle sue stesse consorelle. Al suo fianco ricordiamo l’attrice spagnola María Casarès (sorella Agata, perfida ed impudica, che cercherà di farle provare i piaceri della masturbazione), l’attore inglese Anthony Higgins (nell’improbabile ruolo del saraceno Ahmed) ed il greco Spiros Focas (il fratello maggiore di Alain Delon in Rocco e i suoi Fratelli di Luchino Visconti del 1960, qui nei panni dell’orrendo duca francese).
Oltre alle bellissime location ed al buon cast, Flavia la Monaca Musulmana può contare anche sul bello score musicale del grande Nicola Piovani, che nel 1999 si aggiudicherà il Premio Oscar per la colonna sonora de La Vita è Bella di Roberto Benigni, ma che all’epoca era ancora agli inizi della sua fortunatissima carriera. Le sue note accompagnano già in maniera coinvolgente le prime scene di questo insolito film storico, che tenta di pescare un po’ dall’horror ed un po’ dall’erotico ma riesce poco da entrambe le parti. Se si tolgono i massacri perpetrati dai musulmani nei confronti dei cristiani, con begli effetti gore, e qualche particolarmente convincente scena di tortura, la componente horror è praticamente assente. Viene fuori in qualche segmento onirico, che ci fa sperare nel risveglio dei morti o almeno nel loro spettro, ma nulla più. Ed anche la componente erotica e pruriginosa, se vista oggi, non fa certo un grande effetto, sebbene non si possa non sottolinearne la carica eversiva, essendo inserita nella vita di un convento di monache. Non male la sognante e fiabesca fotografia, ad opera del DOP Alfio Contini (Il Sorpasso, Dino Risi, 1962; Zabriskie Point, Michelangelo Antonioni, 1970), che colloca l’opera in una dimensione più leggendaria che storica.
Insomma, non è né carne né pesce, questo Flavia la Monaca Musulmana, e ciò dispiace molto, in quanto il potenziale per fare un buon film c’era tutto. Flavia, in fondo, è una martire della libertà, subisce un supplizio, si fa portavoce dei diritti delle donne in quanto esseri umani in un’epoca in cui la femmina era invece considerata alla stregua di un animale. Quindi il film ha molto più spessore di quello che voglia far trasparire, sembra quasi che Mingozzi abbia avuto paura a spingersi oltre, togliendosi dal genere, tanto in voga all’epoca, e provando a puntare tutto sulla parte storico/morale della vicenda narrata. Invece, puntando sull’eccessiva spettacolarizzazione del dolore e della sessualità si è ottenuto un film i cui messaggi restano in fondo, non salgono mai a galla, che annoia lo spettatore superficiale, quello che non ha voglia di ricercare, ma si accontenta di ciò che gli viene banalmente proposto. Lento, spesso privo di congiunzioni immediatamente comprensibili, fumoso, senza grossi colpi di scena, così si presenta, agli occhi dei più. L’isterismo ed il fanatismo imperano, l’excursus folcloristico della taranta dura troppo e spiega poco, tutto diviene un po’ troppo sensazionalista, perdendo per strada quella che era l’intenzione che invece aveva messo in moto tutta questa splendida baracca di cavalli e cavalieri elegantemente agghindati alla foggia del tempo. In fondo, tutto quel che rimane dopo la visione di questa pellicola, è la sensazione di aver guardato per oltre un’ora e mezza un bellissimo quadro, in cui ognuno prova poi a vedere ciò che preferisce. Sicuramente non si può negare al film una forza visiva e sonora estremamente suggestiva, supportata dalla buona tecnica registica di Mingozzi, che ci porta all’inferno e ci fa risalire su, ma questo non basta per poter definire questo Flavia la Monaca Musulmana un bel film. Basta, però, per spingermi a consigliarvi di vederlo, ed a farvi un vostro parere, perché si tratta senza dubbio di una pellicola particolarissima, della quale difficilmente troverete uguali. E poi, una delle sequenze più evocative, quella della presa del convento da parte dei musulmani, ricorda in un punto la scena finale del bellissimo thriller di Francesco Barilli Il Profumo della Signora in Nero, uscito lo stesso anno di Flavia…suggestioni, congiunzioni astrali, scopiazzature da un set all’altro? Chissà, voi guardatelo, poi ne riparliamo.
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