Ciao Davide, neanche il tempo di goderci il tuo album “DeaR Me!” che ci inondi di un altro triplo disco “DeaR Tapes” con 60 brani scovati e riportati alla luce dai tuoi archivi. Per te è come segnare un punto di arrivo, o una nuova partenza?
Ciao. Come punto di arrivo, forse lo è nei confronti di me stesso adulto (con più mezzi ed esperienza) tornato indietro, come in un viaggio nel tempo o una bilocazione temporale, a dare una mano al me stesso ragazzo, quando non riuscii a pubblicare i miei lavori.
Il sottotitolo augura “saluti da Ucronia”, il “nessun tempo” in cui, nella narrazione letteraria, grafica o cinematografica, si immagina ciò che sarebbe potuto succedere, se un certo avvenimento storico fosse andato diversamente.
“DeaR Tapes – Greetings from Uchronia”, dunque, è come un’antologia che raccoglie demo, inediti e rarità di un cantante autore famoso se le cose fossero andate in un altro modo. E, questo, è il gioco ucronico.
Come nuova partenza lo è forse rispetto al mio bisogno e proposito di pubblicare anche parte dell’archivio del decennio successivo, quello degli anni ’90, durante il quale misi temporaneamente da parte l’inglese per riprovarci, scrivendo canzoni in lingua italiana.
Ho ancora necessità di comporre musica, possibilmente guardando al presente o in avanti; e per farlo ho bisogno di liberarmi da quanto fatto in passato, perché il passato smetta di pesare da qualche parte nel nessun luogo e nel nessun tempo. Per liberarmene c’è perciò un solo modo: consegnarlo finalmente all’altro da me che ascolti e a una qualche storia realmente accaduta non solo nel mio mondo. Non si compone o registra musica perché nessuno la ascolti, a parte casi estremi come Edmond De Deyster, i cui nastri, tenuti da lui segreti fino alla fine, sono stati scoperti e pubblicati casualmente solo dopo la sua morte. Ma si tratta di casi particolari.
Mondospettacolo è sempre attento a tutto ciò che succede in ambito artistico, in questo caso musicale. Ormai sei un habitué nel raccontarci la tua musica, ma questo progetto supponiamo che abbia all’interno molteplici storie da raccontare…
Vi ringrazio per l’attenzione e lo spazio che mi dedicate ancora una volta.
Ogni canzone ha una sua storia, certo, sia per quanto trattato nei testi, sia per il mio momento storico in cui ho scritto ogni brano. E i molti aneddoti…
Più in generale vorrei però che questa raccolta raccontasse la storia di uno dei tanti ragazzi che cominciò a suonare negli anni ’80, a Torino nello specifico, vivaio sotterraneo di gruppi, di sogni e di idee d’ogni sorta mai emersi allora, e di cui soltanto oggi, dopo più di trent’anni, si sta recuperando materia e memoria, pubblicando retrospettivamente i demo su cassette autoprodotte ora perfino su vinile, reinventando una ricca scena organica, aperta e in fermento che invece non fu, se non che disorganica e chiusa.
Una scena o non scena chiusa nella sua città di compartimenti stagni e chiusa tra noi ragazzi: ognuno coltivava il suo orticello gelosamente con provincialismo snob, anche sminuendo in pubblico gli altri gruppi, invece di solidarizzare e sostenersi reciprocamente, o almeno conoscersi e rispettarsi, al di là di tutto. Dopo alcuni concerti tra l’83 e l’87 decisi di smettere ogni esibizione dal vivo, dedicandomi solo allo studio e alla composizione.
Naturalmente ci furono delle eccezioni e quei pochi musicisti che realmente collaborarono tra di loro, sono poi andati anche più lontano. Ma si parla di una manciata di gruppi su centinaia. A Torino, poi, dopo gli ormai remoti fasti dell’Eiar e della Cetra, mancava una casa discografica decente, a parte la Toast records, che nelle sue possibilità ha fatto quel che poteva, anche per me. Ricordo ancora i giri per le poche case discografiche torinesi… Una in particolare, il cui discografico, dopo l’ascolto di “Far are the shades of Arabia” ci licenziò esclamando: “I Nuovi Angeli! Quello sì che era un gruppo!”.
La storia di un ragazzo, insomma, che avrebbe voluto fare della propria musica il suo mestiere, non riuscendovi tuttavia perché, tra l’altro, non disposto ai compromessi dell’industria musicale italiana, i quali da una parte ancora mortifica ogni originalità sul nascere, dall’altra presto ti consuma e getta via. Avevo, inoltre, bisogno di crescere in un modo il più possibile appartato, producendo solo quello che veramente volevo e andavo sperimentando, senza alcuna intromissione di produttori o direttori artistici e compagnia varia. Non volevo fare musica secondo gli altri, ma solo secondo me.
Questa volta l’ascolto dei vari brani è variegato, ci hai messo dentro un po’ di tutto, restando sempre nel tuo stile.
È perché ho sempre voluto conoscere e conoscermi ricercando tra cose diverse, volendo provare un po’ di tutto e, soprattutto, provarmici. Quanto al mio stile, io non riesco a percepirlo. Aspetto che mi venga rimandato, come hai fatto tu ora, anche se non lo hai descritto. Però mi fa piacere che intanto sia stato percepito da altri come un “mio” stile. Complicato da tutta una vita di accumuli e sovrapposizioni, è difficile autodescriversi in questo senso, magari anche pretenzioso, falso o falsato, illusorio. Voglio dire, che io so ovviamente riconoscermi in qualunque cosa io faccia o abbia fatto, mentre essere riconoscibile dagli altri è tutta un’altra verità.
Quanto tempo ci hai messo a recuperare tutte le tracce? Ne hai escluse alcune, oppure sono tutte quelle che hai ritrovato?
Il progetto di recupero è iniziato un po’ alla volta dalla fine del 2008. Quindici anni… Ho escluso materiale per un altro cd, circa una ventina di composizioni. E ho escluso tutto il materiale con gli Off Beat e con i Bluest, perché spero possa essere pubblicato prima o poi da chi sta riscoprendo e ripubblicando materiale di gruppi degli anni ’80 a Torino. Ho già dato qualcosa a un paio di persone che se ne stanno occupando da tempo, ma ad oggi ancora niente di fatto. E poi ci sono i demo dei demo, magari solo chitarra e voce, materiale grezzo cioè che puoi oggi pubblicare (o vendere all’asta dopo il ritrovamento di una cassetta in un vecchio cestino del pane in soffitta e nascondere gelosamente o furbescamente agli altri) solo se sei morto e ti sei chiamato David Bowie, anche se di qualità assai scadente, ma nondimeno adorabile o desiderabile per l’immensità universalmente riconosciuta dell’artista che vi è stato dietro. Tieni conto che dei miei anni ’80 ho distrutto la metà delle cose fatte. Oggi sono pentitissimo di questo stupido perfezionismo, che però ebbe allora anche il suo dignitoso senso.
Come è cambiato il tuo modo di comporre dagli anni ’80 ad oggi?
Oggi procedo in maniera più rapida e istintiva. Una volta cercavo di studiare e usare ogni accordo possibile, complicando, spesso cambiando anche tonalità. La politonalità era la mia ossessione. Una mia canzone non conteneva mai meno di 20 o 30 accordi diversi. Una volta (brano che non ho più) arrivai perfino a fare una canzone di quasi 50 accordi che non venivano mai ripetuti, e la melodia progrediva in continuazione, senza né strofa, né ritornello né altra parte ripetuta e alternata. Agli inizi procedevo quindi così: costruivo una sequenza di accordi alla chitarra o sulla tastiera che avesse già una propria autonomia. Su quegli accordi basavo una melodia, il canto. Il canto melodico, insomma, veniva dopo, guidato dagli accordi. Spesso questo procedimento risultava ai più “poco orecchiabile”, oltre al fatto che non ho mai avuto una melodicità all’italiana a cui l’italiano medio, volente o nolente, è più abituato.
Poi imparai a suonare altri strumenti e a moderare questa mia “fame” di accordi con l’arrangiamento, nel quale diluire la complessità degli stessi. Da “Wrong or right of forty” del 2006 ad oggi succede invece che nasca tutto insieme. Il canto e la melodia, anche il testo, ora mi escono immediatamente, improvvisando su qualunque cosa, anche da un insieme di suoni atonali elettronici, perfino disarmonici. È come se nei suoni cogliessi già una melodia, come a vedervi già una figura nel blocco informe di marmo per lo scultore, tirandola fuori. Oggi inizio e porto a termine una composizione, registrandola direttamente, in poche ore, né mi curo di studiarne alcunché. Viene fuori da me e basta. “DeaR me!” e “Out of Africa” sono nati così.
Ecco, ci sono molti spunti da scrittori del passato. La tua cultura perciò spazia davvero su tutto…
Da ragazzo avevo più difficoltà a scrivere i testi. Quando si è giovani non si ha l’esperienza e la conoscenza sufficienti per avere sempre qualcosa di decente da dire con le parole. In quanto lettore famelico (leggevo centinaia di libri ogni anno), inoltre misurandomi con la profondità della poesia di molti grandi autori, non mi andava di cantare dei testi insignificanti o sciocchi, magari anche ridicoli o fasulli e pretenziosi. Quando avevo urgenza di comporre una canzone, quindi, per non fermarmi davanti all’ostacolo del non avere le parole giuste al momento giusto, prendevo a prestito delle poesie altrui, Apollinaire, Moore, Eliot, Dickinson, Pound, Shelley, Shakespeare, Rimbaud, Gide, Garcia Lorca, Trakl ecc., usandole per dare corpo alla composizione. Poi, i loro versi sulle mie musiche, finivano per suonare e significare talmente bene da non riuscire più a riscrivere un mio testo. Pensa che persino alcune canzoni di “Daimon” (terzo cd) nacquero dapprima mettendo in musica parti della commedia musicale “The tooth of crime” di Sam Shepard. Quei testi però, per altro inutilizzabili per ovvie ragioni di proprietà letteraria, poi, in un secondo più ragionato momento, li riscrissi, avendo per altro imparato qualcosa negli anni precedenti e un qualcosa da dire e a modo mio. Insomma, certi testi li usavo non per una qualche velleità “rock lit”, ma come prima traccia per riuscire a comporre la musica.
Oggi sono anche l’autore di molti libri, sia in prosa, sia in versi, sia nella saggistica. Non ho più quel problema. A questo mio avanzato punto della vita con le esperienze fatte, le parole e, soprattutto, i contenuti vengono facili e ricchi. Quanto all’inglese, lo scelsi fin dal principio come lingua imprescindibile. Cresciuto con la musica rock anglofona, non consideravo nemmeno possibile fare musica rock in italiano (poi scoprirò anche di sì). Ma non mi limitai all’inglese. Tra le canzoni raccolte in “DeaR Tapes”, cosa ancora passata inosservata, vi sono anche canzoni che cantai in francese, in spagnolo, in tedesco e, perfino, in arabo (una strofa di “No fire without ash”). Seguirà il decennio delle canzoni in italiano, ma non ne fui mai del tutto soddisfatto e convinto. La mia vocalità si era formata con l’inglese e, cantando in italiano, veniva a mancarmi qualcosa. Dopo il 2000 tornai quindi all’inglese. Ho bisogno del mondo intero e di rivolgermi al mondo intero. Mi considero un apolide.
Nell’intervista precedente, quella che parlava di “DeaR Me!”, avevamo pronosticato una tua nuova uscita per metà dicembre 2023 e “DeaR Tapes” è uscito il 15 dicembre, ormai siamo in simbiosi… quasi ci spaventa chiederti i progetti discografici futuri.
Perché vi spaventa? A me spaventa di più non avere ancora un po’ di futuro. A voi no? La mia è solo arte, un cenotafio.
Dove troviamo il nuovo album e dove si pone DeaR sui social?
Non amo i social, che per altro considero una delle prime cause semmai della crescente odierna antisocialità. Ho una mia pagina su Facebook, ma come persona o “amico” più in generale, non come artista. Soprattutto non avrò mai una pagina di quelle tipo “personaggio pubblico”, né l’avrò mai su Wikipedia o simili. Io non sono e non voglio essere nessuno, quanto meno in questo modo. Pensa a tutti coloro che si fanno mettere appositamente o si mettono da sé su Wikipedia… Non lo trovi imbarazzante? L’album si trova su svariate piattaforme di vendita, sia fisicamente (il che consiglio, anche per l’importanza dell’oggetto e la bella grafica di Leonardo Di Lella), sia sui servizi musicali digitali (che sconsiglio, perché effimero, di più bassa qualità in ogni senso e tutto il resto). Con Google Search è facile trovare ormai di tutto, anche “DeaR Tapes”. Ma potete cominciare da qui
Grazie e à suivre…
Lascia un commento