Fuori il 25 agosto “Uno dei tanti”, il nuovo disco di Daniele D’Elia. Dodici tracce pop cantautorali raccontano esperienze e storie che fanno riflettere, immerse in un sound delicato e avvolgente.

La data di uscita non è casuale: è un regalo che il cantautore fa a sé stesso e al mondo, condividendo una parte intima del suo percorso artistico. L’opera esplora temi universali come la speranza, la lotta e l’amore attraverso una lente personale e poetica.

Ecco cosa ci ha raccontato!

Daniele D’Elia intervista

Se il tuo album fosse un viaggio, quale sarebbe la prima emozione o pensiero che vorresti far provare a chi lo ascolta dall’inizio alla fine?

Una bella domanda, a cui non è facile rispondere. La musica, infatti, suscita emozioni e pensieri diversi in ciascuno di noi, essendo uno stimolo a cui ognuno reagisce in modo personale. Tuttavia, se potessi influenzare in qualche modo l’esperienza di chi ascolta, mi piacerebbe che alla fine del viaggio musicale si trovasse in uno stato di calma vitale.

La collaborazione è un tema ricorrente in questo disco. Cosa pensi ti dia maggiormente l’ispirazione: lavorare da solo o confrontarti con altri artisti?

La fase compositiva è per me un processo quasi sempre individuale. Dei trentotto brani che ho pubblicato finora, solo tre non sono stati scritti interamente da me, sia per quanto riguarda la musica che i testi. Tuttavia, una volta completata la canzone e creato un primo abbozzo di arrangiamento, inizia un processo più collettivo. Il mio produttore, Massimo Satta, è il primo a intervenire: sulla base delle mie indicazioni, lavora per interpretare i brani e portare alla luce la loro ‘verità’ attraverso l’arrangiamento. Poi, coinvolgiamo i musicisti più adatti a ciascun pezzo, dando loro libertà di esprimersi. Lo stesso vale per gli artwork curati da Emanuela De Murtas e per tutti coloro che collaborano al progetto. Per questo, considero ogni disco frutto di un lavoro di squadra e ci tengo particolarmente che tutti i contributi vengano riconosciuti nelle presentazioni e recensioni. Dare a Cesare quel che è di Cesare, senza retorica.

L’amore è un tema centrale in molte delle tue canzoni, come in “Tutto l’Oro del Mondo”. Quanto delle tue esperienze personali influiscono sul modo in cui parli d’amore nei tuoi testi?

Tutto delle mie esperienze personali confluisce nel modo in cui parlo d’amore nei miei testi. L’amore è un universo emotivo che prende forma in una canzone. Forse il suono è il mezzo più vicino a questo mondo, perché è una materia rarefatta, capace di toccare profondamente. Ha una natura simile a quella delle emozioni: invisibile e intangibile, ma in grado di generare effetti molto concreti anche nel nostro corpo.

Se dovessi descrivere il tuo disco utilizzando solo colori e immagini, quali sceglieresti e perché?

Credo che la copertina del disco, realizzata da Emanuela, esprima vividamente i contenuti del disco: ritrae me – uno dei tanti – mentre cerco di governare una piccola barca in un mare mosso, una chiara metafora della vita. I colori accesi simboleggiano la speranza che ci accompagna, nonostante le difficoltà e le sfide che affrontiamo lungo il percorso.

Se potessi far ascoltare il tuo disco a te stesso da giovane, pensi che il Daniele degli inizi riconoscerebbe l’artista che sei diventato oggi?

Ho iniziato a scrivere canzoni a quindici anni, e a quel tempo ero sicuramente più istintivo, con meno tecnica per esprimermi. Tuttavia, penso che il Daniele di allora si riconoscerebbe comunque in quello che sono oggi, perché l’essenza è rimasta la stessa. La differenza sta nella maggiore consapevolezza che ho acquisito attraverso le esperienze vissute.

Nel corso della tua carriera, c’è stata una canzone che ti ha messo più alla prova a livello emotivo o tecnico? Qual è e perché?

Direi che sono state più di una. Entrare in studio di registrazione è un po’ come andare in analisi: ti costringe a fare i conti con te stesso. Alcune canzoni vengono bene alla prima, altre ti fanno sudare. Se penso all’ultimo album, mi viene in mente ‘Aquilone’, l’ultima che ho scritto. L’ho registrata innumerevoli volte, persino con il polso rotto, in condizioni non certo ottimali. Alla fine, la prima registrazione era quella giusta! Se l’avessi saputo, mi sarei risparmiato un po’ di fatica, ma è stata comunque un’esperienza in più.


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