Chiunque senta il nome del regista londinese Bernard Rose non può non pensare al suo mastodontico Candyman – Terrore dietro lo Specchio, classe 1992, basato su un racconto del grande Clive Barker. Se Candyman, interpretato dall’affascinante Tony Todd, ha sicuramente lasciato il segno nella storia del cinema horror più di qualsiasi altra opera del regista, tuttavia la sua carriera è andata avanti in maniera più che dignitosa fino ad oggi. Amante della musica, dirigerà nel 1994 Amata Immortale sulla vita del compositore Ludwig van Beethoven, interpretato dal mitico Gary Oldman, e nel 2013 Il Violinista del Diavolo basato stavolta sulla figura di Niccolò Paganini, nel ruolo del quale troviamo il bravissimo violinista tedesco David Garrett. Dopo aver riletto il mito letterario di Anna Karenina nel 1997, nel 2013 Rose sforna Sxtape, un film molto diverso da quelli a cui ci aveva abituati fino ad adesso, ma in cui sicuramente il tocco dell’artista viene fuori, riuscendo a rendere accattivante ed inquietante una materia trita e ritrita come il gruppo di amici che si introduce in un vecchio ospedale psichiatrico in disuso e non riesce più a uscirne. Avvalendosi della tecnica del found footage, ed utilizzando esclusivamente la telecamera a mano (POV), Rose firma un horror convincente che seduce e saprà creare la giusta tensione, sebbene l’inutilità dei quattro protagonisti coi quali non si ottiene mai nessun tipo di empatia. Ma suppongo la cosa fosse voluta, soprattutto nei confronti dell’indiscussa regina del film, Jill, che è una delle protagoniste più indisponenti che abbia mai visto in un horror.

La narrazione si apre con Jill di fronte a un ispettore di polizia, in una stanza da interrogatori, che le chiede perché mai lei ed il suo ragazzo  fossero entrati “in quel posto” per fare delle riprese, e poi, di fronte all’evidente stato confusionale della ragazza, le dice subito, senza alcun preambolo, che il suo fidanzato ed i suoi due amici sono tutti morti. Dopodiché il poliziotto aggiunge “abbiamo i filmati della telecamera”. E da qui si ripercorre l’incubo dall’inizio. Jill è una pittrice di Los Angeles, e Adam, il suo ragazzo, decide di girare un documentario su di lei da proiettare poi alla mostra che la ragazza ha in previsione di realizzare. Un giorno, per farle una sorpresa, Adam la porta a vedere un grande edificio abbandonato, che le racconta essere stato in passato un ospedale dove le donne andavano per abortire. L’idea del giovane è proporre il posto a Jill come sede espositiva della sua prossima mostra. La pittrice ne rimane affascinata e decide di entrarvi all’interno per visitarlo, nonostante le obiezioni del fidanzato che la invita prima a richiedere i permessi. La polizia li becca proprio mentre varcano il portone, chiuso blandamente da catene, ma, dopo averli inseguiti un po’, se ne va. I due restano soli nell’enorme edificio, e presto verranno raggiunti da una coppia di amici, Elly e Bobby. Da quel momento Jill inizia a comportarsi in modo strano, e presto sarà evidente che i quattro non sono soli là dentro, e che forse quel luogo non serviva soltanto a far abortire, ma i pazienti che vi erano ricoverati avevano ben altri problemi… Inizierà così una vera e propria corsa verso la sopravvivenza.

Scritto da Eric Reese, Rose ne cura anche fotografia e montaggio. Sebbene il film sia debitore di svariate altre pellicole e serie tv, senz’altro quella a cui sembra maggiormente attingere è ESP – Fenomeni Paranormali dei Vicious Brothers, classe 2011. Nonostante le motivazioni dei protagonisti fossero un po’ diverse, comunque sia in entrambi i film un gruppo di giovani si chiude volontariamente in un vecchio ospedale con l’intento di fare delle riprese, ed entrambe le volte non saranno affatto contenti di ciò che scopriranno. Ma ormai il dado è tratto, e non si può più tornare indietro: determinate forze sono state risvegliate, e pare proprio non esserci più una via d’uscita. L’atmosfera gode del fascino che da sempre trasmettono i grandi edifici abbandonati con tante storie di sofferenza alle spalle, che sono rimaste lì, attaccate alle loro pareti spoglie, ai lunghi corridoi rischiarati dai freddi neon, ed a tutte quelle apparecchiature un tempo usate per somministrare dolore e sofferenza. Condito con una buona dose di morbosità ed erotismo, entrambi perfettamente incarnati dalla seducente protagonista, il film passa da una prima parte un po’ lenta e giocata molto sul rapporto e le prodezze sessuali tra i due ragazzi ad una seconda decisamente più cupa e oscura, dalla quale la carica erotica non decade mai, ma che diviene non più elemento primario, lasciando il posto all’Orrore che permea gli interni opprimenti del consunto edificio.

Nel ruolo della petulante oca giuliva Jill troviamo, al suo debutto sul grande schermo, l’attrice americana Caitlyn Folley, che dimostra di saper sostenere vari registri recitativi, mostrandosi sensuale e spregiudicata all’inizio per poi calarsi nella parte più terrificante ed oscura che il suo personaggio si troverà a dover affrontare. Al suo fianco, nel ruolo del fidanzato Adam, l’attore sudafricano Ian Duncan, che purtroppo si vede solo pochi istanti sul finale in quanto è lui che si occupa di effettuare la riprese praticamente per tutto il film. Nel ruolo di Bobby, l’amico di Jill, troviamo l’americano Chris Coy, già visto in Hostel: Part III di Scott Spiegel (2011). Il cast non brilla sicuramente, ma infine quella che deve emergere è Jill, e così è, se vi pare. Oltre alla sensuale e provocante protagonista ad emergere è anche lo strepitoso ospedale dove i giovani andranno incontro al loro destino. Collocato in una zona assolata e piena di palme di Los Angeles, visto da subito in piena luce, il grande edificio abbandonato appare fin dalla prima occhiata lugubre e spettrale: varcarne le porte, chiuse solo da una ciondolante catena che ovviamente non ostruisce il passaggio, sarà una sorta di nekyia per i protagonisti, che si ritroveranno catapultati direttamente all’inferno, peraltro in compagnia tutt’altro che buona!

Certo, come sempre, il film ha i limiti di quasi tutti i found footage, primo in assoluto quello che il protagonista non abbandona mai la videocamera nemmeno nelle situazioni più terrificanti e paradossali: è possibile, ad esempio, inquadrare chiaramente un fantasma e non fare una piega? Non un minimo sussulto, non un accenno di fuga, nulla. Adam resta impassibile, indifferente, atarassico. Suvvia. Il delirio psico-visivo regna sovrano, la componente sessuale è volutamente ostentata dall’inizio alla fine, e la protagonista si prodigherà in tutto quello che ci si può immaginare. Ma troppo. Forse in maniera eccessiva, talmente troppo da rendere alcune situazioni davvero poco credibili. E poiché lo scopo del mocku è quello di sembrare reale, quando si eccede questa pretesa di verità viene meno ed inquina un po’ la visione, sebbene chi è allenato alla sospensione dell’incredulità impari a passarci sopra ed a lasciarsi coinvolgere malgrado tutto. Preparatevi a sconfinare, a tratti, nell’hard estremo tendente al porno, con qualche trovata morbosa agli eccessi: sesso ovunque, nudità femminile in abbondanza, un rapporto a tre ripreso dai monitor di sorveglianza dell’ospedale, che sebbene il luogo sia in disuso da anni funzionano ancora magicamente, fellatio a tutto schermo che sconfinano nel cannibalismo ed addirittura una scena di defecazione isterica sul pavimento con tanto di rimozione manuale degli escrementi. Insomma, Rose non ci risparmia nulla, ha voglia di mostrare, di eccedere, di fare sensazione.

Di Candyman Rose riprende gli scenari urbani degradati, i graffiti, la pazzia muliebre data dal contatto con entità altre. Ma qui non c’è alcun mostro affascinante che arriva da dietro lo specchio, sebbene chi torna abbia comunque alle spalle un passato di dolore, torture e morte, anche se non per il colore della pelle. Anche qui, a ben guardare, si tratta della vendetta di un qualche reietto, di qualcuno che non meritava di subire ciò che ha subito, e adesso si vendica su coloro che, scherzando e ridendo nei luoghi del suo martirio, malauguratamente faranno la sua conoscenza. Si respira anche un po’ di quel capolavoro del 2001 che è Session 9 di Brad Anderson, anche se in minima parte, avendo quell’opera un’impostazione nettamente più psicologica e meno mainstream del nostro Sxtape. Impossibile anche non pensare, mentre scorrono le immagini, alla seconda, epocale stagione della serie televisiva American Horror Story, quell’Asylum che in un vecchio manicomio aveva la sua location esclusiva.

Insomma, non si può negare che questo Sxtape non brilli certo di originalità, sia nella modalità di realizzazione che nella sceneggiatura, ma nella sovrabbondanza di situazioni si può riconoscere il punto di maggior interesse di questa leggera ma divertente pellicola di Bernard Rose. L’esperto regista inglese riesce più volte a farci sussultare, in barba alla ripetizione dei topoi tradizionali del genere, ed il finale, che vede il cambio di prospettive con Jill che riprende Adam, sfocia nell’onirico e non risulta, nella sua prevedibilità, la solita roba vista e rivista. Il tocco di classe di Rose c’è anche qui, in una materia che non è certo quella di Clive Barker, a dimostrare come in mano ad un buon artista anche il più abusato dei materiali possa essere riplasmato e regalarci, comunque, qualche piacevole sensazione.

https://www.imdb.com/title/tt2041331


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