Al lancio del tipico colosso di celluloide nel mercato primario di sbocco della fabbrica dei sogni, sulle ali dell’entusiasmo di riuscire così ad appagare da una parte l’immaginazione delle masse e dall’altra la sete di conoscenza degli esigenti seguaci del cinema d’autore, l’esperto ed eclettico regista italo-americano Francis Ford Coppola è avvezzo sin dai tempi dell’inobliabile classico Il padrino.

Adesso, a distanza d’oltre mezzo secolo, spetta alla sua ultima ambiziosissima fatica Megalopolis – il cui nomen omen mette le carte in tavola già prima dei titoli di testa – l’onore e l’onere di anteporre l’esplicito canto dell’evocativo kolossal alle banalità scintillanti della campagna promozionale.

Mentre dietro l’approdo in pompa magna nelle sale d’ogni angolo del pianeta di quello che venne subito definito il Via col vento dei film sulla mafia, per altro mai menzionata, albergava l’assoluta densità contenutistica d’un’opera di particolare pregio culturale, giacché capace di conferire alla successione dinastica d’un boss di quartiere avverso al traffico di droga lo spessore poliedrico delle tragedie shakespeariane, la fantasia figurativa congiunta ora allo sguardo sul futuro ora ai princìpi ereditati dalla tradizione rischia di trascinare lo scandaglio d’ordine filosofico ed esistenziale della New Rome sottintesa nel titolo all’interno dell’humus sdrucciolevole dell’infertile cerchiobottismo. Alieno, sia in prassi sia in spirito, al viaggio di dantesca memoria del possente ed enigmatico Apocalypse now incentrato per ammissione dello stesso Coppola sul bisogno di tener fede ai migliori angeli dell’indole umana cara ad Abraham Lincoln dinanzi agli orrori della guerra. Anche se, ripartendo dall’ormai risaputa narrativa di anticipazione del genere sci-fi, il sentimento d’imprescindibile rettitudine nei confronti dell’intera stirpe terrestre, rappresentata dall’avveniristica Grande Mela d’oltreoceano concepita sull’esempio di Roma Caput Mundi, permea l’intera trama, sorretta sin dall’incipit dai profondi ed emblematici processi di costruzione e straniamento dell’inossidabile time lapse, alla legittima speranza, riposta nell’egemonia della probità d’ogni autentico carattere d’ingegno creativo in confronto al deleterio delirio d’onnipotenza, non corrisponde affatto l’opportuna linearità stilistica. Esibita da un Coppola in stato di grazia nel thriller contemplativo La conversazione, amalgamando l’incertezza dell’attesa spasmodica all’intrinseca sfera intimista contrapposta alla previa potenza dell’affresco, e nell’apologo sull’età verde I ragazzi della 56ª strada. All’insegna della forza di coesione garantita dal nido familiare eletto ad antidoto contro i disvalori scambiati per valori sul terreno degli scontri periferici. In Megalopolis non v’è la benché minima traccia dei concetti, approfonditi dagli avvertiti ed empatici elementi drammaturgici, di moralità, privacy e riparo domestico.

La New York di domani che riecheggiando gli splendori della Città Eterna funge da teatro a cielo aperto dei dissidi del pragmatico sindaco con l’architetto Cesar Catilina, intento a recitare il passo più celebre del toccante Amleto dinanzi a una platea stregata dalla facondia dei versi tutt’oggi carichi di significato, risulta priva della facoltà mitopoietica insita nella geografia emozionale. Lungo i bordi delle vertiginose terrazze a strapiombo che il febbrile progettatore inviso al podestà vecchio stampo fronteggia, sulla falsariga dell’intraprendente e provocatorio principe del foro impersonato da Al Pacino ne L’avvocato del diavolo, l’accidia delle idee attinte all’altrui estro manda a carte quarantotto l’arduo proposito d’interpretare la vicenda legata all’entità metropolitana in chiave mitologica ed estremamente autobiografica. Il guanto di sfida lanciato alle leggi della gravità a braccetto col corto circuito onirico d’interdire a proprio piacimento la geometria degli spazi e l’inesorabile scorrere degli eventi evidenzia l’eccesso di spavalderia connesso alle idee prese in prestito dallo stop motion di Matrix. Idem per le imperiose statue che perdono la loro marmorea immobilità assumendo le pose più curiose ed eccentriche, per il potere di suggestione affidato a una progressiva discesa negli inferi ai limiti dell’assurdo, per lo sdoppiamento tra sogno e realtà dovuto agli ingannevoli stimoli sensoriali, per gli spettacoli circensi d’ascendenza chapliniana, per il mondo della decadenza mostrato attraverso il filtro del piacere lascivo, coi profili di Venere chiamati ad animare l’ennesimo documentario d’un sogno realizzato sul modello nascosto di Federico Fellini, a dimostrazione di quanta poca farina del sacco ormai vacuo di Coppola ci sia in questo colosso dai piedi d’argilla. Giungono all’esasperazione nell’inane speranza di celare la penuria di guizzi originali altresì le sventagliate degli accecanti flash dei fotografi capitanati dalla giornalista d’assalto assetata di rivalsa, il nido di vespe imperante nella debordante polis, la tomba delle illusioni concepite lontano dalle stanze dei bottoni, gli irrinunciabili appuntamenti mondani, il conturbante petting dei partner sessuali estranei alla tenerezza, il contraltare delle frecce di Cupido che alimentano il tenero trasporto della figlia del sindaco.

Figlia persuasa dall’autocrate padre a richiamare alla mente Marco Aurelio per sancire la superiorità etica delle linee programmatiche eminentemente concrete rispetto ai pur fascinosi vagheggiamenti urbanisti. Salvo poi smentire l’illustre fonte in nome dell’amore nei riguardi dell’architetto che nell’abusare della fiducia concessagli scomoda nientepopodimeno che l’oratore per eccellenza Cicerone. Le modalità implicite ed esplicative riscontrabili nell’indefessa impronta citazionistica, al pari dall’alacre contributo fornito da copione dal mix di scenografie accattivanti ed effetti speciali simili a imperterriti colpi di gomito, stentano a neutralizzare il rischio del ridicolo involontario. All’agguato specialmente negli echi di Cabaret e del Cotton Club diretto da Coppola quando l’ombra del rimando vanesio, unitamente all’impasse dei nani sulle spalle dei giganti, non si era manifestata neanche di striscio. Megalopolis intrecciando romanticismo e illuminismo, luci sfavillanti e tenebre, abissi e pertugi salvifici lascerà soddisfatti chi veleggia in superficie nel cercare nei racconti delle opere sperimentali il respiro di quelle monumentali. Gli spettatori, invece, consapevoli che bisogna diffidare dalle imitazioni, in particolare del Titus di Julie Taymor, sapranno sorridere del riferimento conclusivo alla costituzione statunitense e all’omonimo legal dramedy …E giustizia per tutti di Norman Jewison con Al Pacino. L’ultima soglia d’un maestro della Settima arte con le polveri bagnate. Mal servito da un cast troppo sopra le righe con Adam Driver nei panni di Cesar Catilina mestamente gigionesco. In bilico sul precipizio della quisquilia del contafrottole che, ahinoi, gira a vuoto. Pensando al domani nel ricordo dei fasti targati, come si suol dire nella Capitale, Cartagine.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Plugin WordPress Cookie di Real Cookie Banner
Verificato da MonsterInsights