Dopo il mezzo passo falso compiuto con l’acre ed evocativo dramedy Red Rocket, scandagliando la provincia texana dove l’immusonito porno divo protagonista a fine carriera affronta l’oblio senza riuscire ad appaiare appieno le zone d’ombra dell’american dream e la luce in fondo al tunnel ad appannaggio degli apologhi sulle tenere inversioni di tendenza rispetto all’impietosa atmosfera canzonatoria dominante, l’ambizioso Sean Baker al timone di regia torna nell’insolita commedia romantica Anora ai livelli dell’inobliabile affresco malincomico Un sogno chiamato Florida.
L’intrinseco transito dalla cornice dorata a braccetto con le banalità scintillanti dei parchi divertimento all’emblematico controcampo della cornice derisoria connessa al degrado dell’hinterland dietro l’angolo, in cui la purezza d’ogni bimbo costituisce l’antidoto ideale alla facinorosa lotta per sopravvivere degli adulti, lascia adesso la ribalta all’esplorazione antropologica ed esilarante di un’inedita Grande Mela.
Al posto delle meste case popolari convertite in castelli reclamistici, degli squallidi motel a un tiro di schioppo dai circoli sportivi dei vicini nababbi, ripresi in lontananza al contrario dell’altalena degli stati d’animo che attanagliano l’ultimo gradino della scala sociale con l’uso dell’opportuna camera a mano, prende piede l’effigie del locale di spogliarello sito a Manhattan, della zona est, nel quartiere del borough di Brooklyn, in cui gli immigrati russi hanno trovato riparo dal menzognero livellamento egualitario concepito nell’algido Cremlino, a Coney Island e nei luoghi all’insegna del fatuo consumismo. Lo scopo della rappresentazione, impreziosita sia dalla proverbiale forza significante della geografia emozionale, pienamente nelle corde del redivivo Baker, sia dalla capacità di scrivere con la luce, sulla scorta d’una dinamica cromatica colma di senso, risiede nel fornire dapprincipio una variante mordace del cult Pretty woman e con il rovesciamento di fronte, che antepone la crudezza oggettiva alla sospensione favolistica, nel rileggere in chiave moderna, oltreoceano, l’avvincente capolavoro Le notti di Cabrira diretto da Federico Fellini. Nondimeno alla pigrizia delle idee attinte all’altrui ingegno prevale la genuina vitalità scenica aliena agli accidiosi nani sulle spalle dei giganti. Sin dall’incipit, ambientato nello strip club in cui l’erotic dancer Anora – detta Ani per celare l’origine uzbeca – incontra il rampollo d’una facoltosa famiglia di oligarchi sovietici, emerge la destrezza stilistica dell’autore con la “a” maiuscola. Riscontrabile nella complicità muliebre degli sguardi a distanza delle succinte ballerine avvezze al petting, nell’esistenza colta di sorpresa, sulla falsariga del sagace ed erudito John Cassavetes, nei saldi richiami ai blocchi figurativi degli artisti fedeli alla locuzione latina Ut pictura poësis (come nella pittura così nella poesia). Fautrice della trasformazione palmo a palmo in ragguagli introspettivi.
I personaggi di fianco delle donne di servizio che puliscono la principesca villa del figlio di papà proveniente dall’ex URSS fungono da apripista al significativo mutamento di rotta. Al fugace matrimonio dettato dall’entusiasmo dell’età verde, che confonde il benessere con la felicità e l’affinità di carattere, segue presto un mosaico di siparietti tragicomici congiunti alla conclusione del labile idillio. Gli strusciamenti, la seduzione, l’accoppiamento goffo ma dolce, lo sperpero, la spensieratezza, l’euforia, catturata dall’inquadratura dal basso all’alto, per la cerimonia nuziale sprint celebrata nell’inidonea Little White Wedding Chapel di Las Vegas, crollano di schianto dinanzi agli scoppi d’ira della sposa per caso. Gli scontri con lo zelante Toros che officia nel Nuovo Mondo vestito di tutto punto funzioni conformi agli imperativi della tradizione, a differenza di quella invisa agli inviperiti genitori del viziatissimo Ivan alias Vanja, innescano l’apporto compiuto della contaminazione dei generi. Alla sottile deformazione caricaturale della farsa intelligente, ravvisabile nell’approccio di Ani con gli scagnozzi agli ordini di Toros, corrisponde lo stato d’attesa, ed ergo il sentimento d’insicurezza, dei thriller spuri. L’interazione tra habitat ed esseri umani – veicolati ora lungo i binari burleschi della satira di costume, ora per mezzo degli stilemi della denuncia sociale nell’humus della lacerazione psicologica, per permettere ai paria in odore di riscatto etico d’inserire lontano dalla giostra gioconda della prima parte la tensione scenica dovuta all’implicita ricerca dell’autenticità dei sentimenti – diviene profonda ed epidermica. Perfino urticante.
Sebbene l’ausilio dei brani extradiegetici sembri svilire di quando in quando il denso e spassoso viavai delle avventure vespertine degne dei migliori road-movie ante litteram, in grado d’incrociare diversi piani visivi nascosti all’inizio dall’abitudine a veleggiare sulla superficie, i debiti sberleffi all’empia moralità economica colpevole dell’amara palingenesi del sogno in incubo impediscono alla trama di pagare dazio all’inane drammaticità ampollosa ed effettistica delle opere a tesi. La missione è compiuta grazie altresì alla magistrale prova di Jurij Borisov che, memore della pregnante performance fornita in Scompartimento n. 6 – In viaggio con il destino di Juho Kuosmanen, conferisce notevole rilievo al tirapiedi avvezzo a parlare con gli eloquenti silenzi. Deciso a spingere l’esperta di lap dance, all’oscuro del cinismo dei ricchi, ad aprire gli occhi. Mikey Madison assicura ad Ani il brio, lo sconforto, il giovanile trasporto della ragazza consapevole in zona Cesarini degli slanci generosi che i poveri di spirito non potranno mai comprare. La morale della favola di Anora saprebbe comunque lo stesso di stantio e di decrepito se la destrezza da indefesso sperimentatore dell’estroso Sean Baker non consentisse ad alcune incisive tecniche di straniamento, dispiegate sottobanco, d’impartire una preziosissima lezione da tramandare ai posteri in merito al valore terapeutico dell’umorismo. Che spoglia d’ogni ovvia tinta troppo variopinta la collana dei consueti imprevisti uniti agli echi di largo respiro dell’empatica commedia sofisticata.
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