“Quando chiudo gli occhi”, romanzo di Alessandro Accardo, è un romanzo molto ben elaborato e avvincente, capace di catturare i lettori più esigenti. Il protagonista, Julien, si ritrova improvvisamente alla guida della propria auto. Altrettanto misteriosamente, gli arriva un sms dalla moglie, ridotta quasi in stato vegetale a causa di una grave malattia, che lo invita a raggiungerla nel loro “posto segreto”. A questo punto, lasciandosi andare con la testa, il nostro Julien inizia, un po’ alla volta, a ricordare delle spiacevoli vicende della propria esistenza, caratterizzate da enormi sensi di colpa. In tutto ciò, viene fuori che l’obiettivo dello scrittore è quello di far passare l’idea, di certo non tra le più facili da condividere, che vorrebbe la morale umana dominata da una certa relatività: che diventa, quindi, il metro di giudizio mediante il quale farsi un’idea di ciò che accade. A tal proposito, può forse tornare utile la distinzione tra i concetti di “morale” ed “etica”: laddove col primo, infatti, si suole indicare il lascito comune dei valori universali attribuiti ai gesti umani, il secondo, invece, viene perlopiù applicato in riferimento alle condotte aventi a che fare con la vita di ogni persona.
Parlando dell’autore, nato a Napoli trentadue anni fa e cresciuto nella vicina Portici, la sua storia personale è interessante tanto quanto il romanzo. Egli, infatti, si è laureato in Scienze Agrarie, nella speranza di una sistemazione pressoché immediata. La sua passione per le discipline umanistiche, tuttavia, e per la filosofia in particolare, ha poi avuto la meglio, portandolo ad abbandonare il settore della grande distribuzione, dedicandosi invece alla tanto amata scrittura. Di conseguenza, Accardo potrebbe forse essere paragonato a due grandi intellettuali del secolo scorso, quali furono Carlo Emilio Gadda ma soprattutto, in quanto anch’egli napoletano, Luciano De Crescenzo: i quali, divenuti entrambi ingegneri perché spinti dai genitori, riuscirono poi ad emergere in ambito letterario. E la stessa cosa, ovviamente, non può che essere augurata al nostro autore.
Del resto, al di là dei paragoni con altre personalità, e analizzando più nello specifico il romanzo, è evidente che non mancano le carte in regola per poterlo considerare un prodotto dalla qualità notevole. Innanzitutto, a giudicare dalla trama accennata, viene subito da pensare ad una vicenda come quelle tipiche delle opere di Franz Kafka: Julien, infatti, si ritrova in una situazione piuttosto strana, oltre che tormentosa, da dover vivere solo e soltanto come tale.
Inoltre, parlando della struttura del romanzo, si parte da un prologo, dove un narratore indistinto narra i sogni avuti in uno stato di depressione. Vengono poi ripercorsi, in ordine, episodi della vita di coppia, vicende della fanciullezza e poi, nella terza parte, la storia di altri due personaggi, identificati con l’istinto e la coscienza. Infine, nell’epilogo, lo scrittore partenopeo ci delizia con una conclusione che lascia una certa libertà interpretativa. Abbiamo quindi degli elementi che ci consentono di ascrivere il libro anche al genere, altrettanto interessante, del romanzo psicologico: per il quale grandi autori del passato italiani e stranieri, quali Italo Svevo e James Joyce, sicuramente, se vivessero oggi, se ne complimenterebbero vivamente.
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