Fedele all’etica della messa in scena attinta sin dagli esordi ai rigorosi ed eruditi fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, alieni all’enfasi di maniera delle opere strappalacrime, l’ormai esperto regista abruzzese Stefano Chiantini con l’asciutto mélo familiare Supereroi, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2024, riesce ad anteporre all’accidia delle idee prese in prestito l’assoluto timbro d’ingegno creativo di chi mette nella scrittura per immagini parecchia farina del suo sacco.
L’intrinseco slancio autobiografico – riscontrabile già nei previi film (Una madre sugli scudi) – si va ad amalgamare all’estro di rileggere in chiave autoriale ed ergo anche personale Over the top di Menahem Golan con Sylvester Stallone. Un cult nazional popolare a stelle e strisce estraneo, sia in prassi sia in spirito, al dotto lavoro di sottrazione caro a Chiantini. Tuttavia, richiamando alla mente l’acredine dell’altero figlioletto cresciuto nella bambagia nei riguardi del negletto genitore camionista reo di averlo lasciato alle cure materne quand’era bambino, l’abitacolo zeppo di foto che lo immortalano nel corso degli anni, la cabina adibita a dimora dove dormire senza i confort dell’albergo, la progressiva palingenesi volta a cedere il passo all’intesa cementata dal legame di sangue, al posto dello sdegno iniziale, Supereroi inchioda l’attenzione d’ogni tipo di spettatore.
Le profonde interpolazioni poste in essere nel toccante ritratto della nuotatrice in erba Jenny che canta a squarciagola nell’incipit il celebre brano Questa non è Ibiza del gruppo musicale The Kolors, seduta nel pullman insieme ad allegre coetanee votate alla sana competizione sportiva, agguanta all’ultimo sprint la gara ritenuta il trampolino di lancio per gli agognati tornei nazionali e riserva continue punture di spillo al grossolano padre Alvaro alla guida dell’autocarro, resosi colpevole dell’abbandono del tetto coniugale, all’epoca dei quindici anni dell’indispettita campionessa, scandagliano l’humus dell’incomunicabilità, convertita presto in mutua complicità da Over the top secondo consolidati canoni ligi alle fughe consolatorie dalla crudezza oggettiva dell’esistenza, sulla scorta, viceversa, d’un avvertito rigore espressivo. All’insegna degli eloquenti silenzi d’ascendenza bressoniana interrotti ciclicamente dalle forme-bandiera del romanesco ad appannaggio di Jenny, Alvaro e dell’immusonita ma amorevole mamma incarnata con rimarchevole sobrietà d’accenti dalla talentuosa Barbara Chicchiarelli. Mentre il ricorso ad alcuni modi di dire capitolini, contemplati altresì nel litorale, certifica l’affinità dei consorzi domestici che tagliano corto e annullano perciò le distanze, anziché menare il can per l’aia con una mitragliata d’infeconde battute, l’effigie del lungomare di Civitavecchia innesca, oltre al sottotesto suffragato dal surplus delle modalità esplicative, il rintocco identitario ed elegiaco della geografia emozionale.
I luoghi dove sentirsi pienamente a proprio agio, al riparo dagli schiaffi del destino, dallo spettro della solitudine, dai tic dell’alienazione, che abbranca Alvaro alla medesima stregua dell’invalidità al termine d’una tenera gara di stile libero con Jenny, traggono linfa dalla capacità di scrivere con luce. Persuade meno, invece, l’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici che cadenza da copione i momenti chiave della trama. In particolare quelli legati al rumore bianco dell’acqua e alla malinconica punteggiatura liricizzante. Che, seppur commoventi, sanno di risaputo. L’efficace mix di permalosa ruvidezza ed espansiva affettuosità, al contrario, trascende l’impasse dei nani sulle spalle dei giganti e sposta dunque il punto focale sulla classica unione forzata che grazie in particolare alla destrezza d’un gioco fisionomico ben temperato finisce per privilegiare step by step alla vena acre, che serpeggia comunque quasi sempre nel denso linguaggio dei corpi, la dolce inversione di tendenza costituita dall’autentica complicità. Colta nelle pieghe più intime e apparentemente più inaccessibili dei caratteri. Avviluppati ora nell’emblematica semioscurità ora nel tramonto paesaggistico ed evocativo. Estraneo alle secche dell’ovvia retorica. L’esplorazione del risentimento, delle inquietudini, frammiste al mordace rovescio della medaglia congiunto all’imbranataggine di Alvaro sostenuta dal valore terapeutico dell’umorismo, dell’egemonia dell’altruismo sulla durezza di cuore, persino se non specialmente di fronte ad amare scoperte, non presenta qualsivoglia scollatura. Bensì sviluppa il confronto tra indoli così vicine così lontane, per dirla alla Wim Wenders, ingraziosendo la crescita drammatica, altrimenti d’ordinaria amministrazione, col tenue ed empatico sottosuolo dei gesti.
Una lode incondizionata in tal senso va riconosciuta al bravissimo Edoardo Pesce che nei panni di Alvaro sfrutta l’ingombrante mole per calare nella contemplazione del reale, conforme alla marcia in avanti della poesia allo stato puro, una figura dolente, nondimeno autoironica (“so’ un gatto” suole ripetere deambulando a stento), intenta ad appaiare nelle frasi smozzicate e negli sguardi di sbieco l’avvicendarsi costante d’introversione ed estroversione. L’avventizia Sara Silvestro nel ruolo di Jenny gli tiene vigorosamente testa rubandogli talora la scena con la muliebre morbidezza frammista alla granitica tenacia dell’atleta doc che rinuncia al sogno per restituire all’affranto babbo avvezzo ai motteggi pungenti lo sprono ricevuto rinunciando alle medesime aspirazioni. Ad Antonio Zavatteri nella parte dell’allenatore che spinge Jenny a perseguire l’obiettivo prefisso bastano pochi attimi per lasciare un’impronta inobliabile in virtù d’una maschera contornata dai solchi dei muscoli facciali carichi di significato. L’aneddoto sentimentale con l’amico d’infanzia, coinvolto da Jenny nel piacere di abbandonarsi all’equilibrio del galleggiamento, catturato appieno dall’inquadratura dal basso in alto all’interno della piscina in cui la coppietta s’introduce di soppiatto, complice il favore delle tenebre, non aggiunge granché alla finezza del tratto introspettivo. Il superbo governo degli spazi, basilari tanto quanto l’elemento orientatore ed eminentemente simbolico dello specchio, testimonia, all’opposto, la mano ferma e l’acume di Chiantini che imprime a Supereroi il sapore dell’apologo immerso nel clima d’austerità dell’aura ascetica, nella voglia di superare gli ostacoli, nelle rovinose cadute, nel riflesso scenografico connesso alla catartica risalita della sdrucciolevole china.
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