Misurandosi questa volta sia dietro sia davanti l’ardua ma stimolante macchina da presa per esibire in maniera più ampia ed esaustiva la propria avvertita idea sull’altalena degli stati d’animo che condizionano ora in modo palese ora sottobanco l’intero pianeta, dopo l’esordio in cabina di regia nel dramedy Quando avrai finito di salvare il mondo contraddistinto dalla scelta di mettere da parte lo spettacolo della recitazione, l’ambizioso attore Jesse Eisenberg, nato nel Queens di New York da una famiglia ebrea di origine polacche sopravvissuta agli orrori dei lager, alza il tiro con lo spigliato road-movie A real pain.

La conoscenza intima della materia trattata, impreziosita dal carattere d’autenticità congiunto ai legami di sangue e di suolo, non basta però a cementare in automatico il carattere d’ingegno creativo. Necessario ad amalgamare la spontaneità di tratto della psicotecnica interpretativa coi colpi d’ala ad appannaggio della scrittura per immagini.

Certi carrelli in avanti al servizio di qualche compiaciuto assolo del buon Jesse Eisenberg nel ruolo dell’immusonito David, deciso a onorare la memoria della nonna Dory con un tour dell’Olocausto insieme all’indocile cugino Benji, evidenziano l’assenza d’un linguaggio cinematografico gorgogliante d’intuizioni fuori del comune. Pure i movimenti di macchina a schiaffo e lo slow motion connesso all’inquadratura di quinta rientrano nell’ordinaria amministrazione di sopperire alla penuria d’idee attingendo sottobanco ad altisonanti numi tutelari. Da Woody Allen, per quanto concerne il valore terapeutico dell’umorismo legato ai tormenti esistenziali d’ascendenza bergmaniana, a Wim Wenders. Capace di conferire alla location eletta ad attante narrativo ed evocativo carico di senso lo stesso spessore psicologico dei personaggi in carne e ossa. Lo spazio delimitato dalla camera rimane così sui binari della risaputa composizione del quadro che nel privilegiare il mix di interni ed esterni tenta inutilmente di moltiplicare gli ambienti. Le camere d’albergo, la hall dove la strana coppia un tempo inseparabile rompe il ghiaccio con gli altri partecipanti al giro lungo i luoghi del dolore, stemperato nell’ironia dall’irriverente Benji sulla scorta della battuta di spirito quasi sempre in canna, e gli ulteriori posti al chiuso, come il Museo della storia ebraica in Polonia, appaiono maggiormente persuasivi di quelli all’aperto.

La geografia emozionale – benché sorretta dal nobile intento di far scoprire agli spettatori promossi a cinenauti il quartiere di Varsavia, Muranów, che custodisce, oltre al celebre monumento del ghetto, la sensazione di vivere nella cenere a dispetto delle iniziative dei residenti per guardare al domani, e Majdanek con il campo di concentramento nel quale allo spasimo si accompagna il pudore dell’aura contemplativa – non dà mai la stura a pensieri davvero profondi. Avvalorati cioè dalla fragranza dell’originalità. La prevedibilità della trama, incentrata sul rapporto turbolento dei due cugini dai caratteri agli antipodi, pregiudica all’interazione tra timbri burleschi ed empiti compassionevoli, preannunciati dalle musiche prossime all’enfasi, il salto qualitativo in grado di toccare vette supreme. Sulla scorta della poliedrica vena di chi trae partito dai prolifici antesignani senza perdere di vista il personalissimo approccio all’ordine naturale delle cose vittima sovente del pessimismo dei nevrotici cronici e dello sfascio degli imprescindibili valori. Il tentativo d’imprimere ai frequenti bisticci dialettici la valenza dell’antiretorica, per evitare di cadere nella melansaggine delle infertili soap opere, va a carte quarantotto al pari della velleità di cospargere di fulgidi accorgimenti cromatici le venature grigie della fotografia.

A real pain perde quindi negli scontati semitoni e nell’imperizia simbolica che non assume mai il ragguardevole peso morale prefisso in partenza quanto guadagna nell’evidenza robusta ed epidermica dell’epilogo. La casa d’infanzia a Voivodato di Lublino della nonna, calata amorevolmente nella tomba in America, con un siparietto malincomico col vicino dapprincipio diffidente degno d’encomio, e il terminal dell’aeroporto della Grande Mela, ideale per “cazzeggiare” ed esorcizzare le montagne russe di una personalità brillante, coinvolgente, carismatica persino, ma al contempo soggetta all’ostico confluire compulsivo degli individui borderline, tagliano finalmente appieno il traguardo dell’arguzia dolceamara. Suffragata dai momenti d’intrinseca tenerezza. Kieran Culkin, forte d’un gioco fisionomico che non si arena in superficie, aderisce agli alti e bassi di Benji grazie al meritevole slancio camaleontico che agevola il passaggio dalla facondia dialogica agli eloquenti silenzi superando di diverse spanne il monocorde Eisenberg. Colato a picco per la voluttà d’ergersi ad autore con la “a” maiuscola.


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