Archiviata la cifra stilistica dominante, esibita tanto nel sobrio ed etereo film d’esordio Salvo quanto nel poetico melò Sicilian ghost story, puntando sulla ricchezza espressiva dell’aura ascetica, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza tornano con Iddu – L’ultimo padrino a dirigere in tandem un altro mafia movie autoctono che esula dall’ordinario ma che al contempo muta segno rispetto alla meritevole destrezza di trasfigurare l’inclemenza della cruda realtà attraverso l’incanto onirico.
I cinefili di provata fede dovranno perciò rinunciare alle profonde emozioni suscitate sia dal miracolo a cui assiste l’algido killer in Salvo, spinto così ad anteporre lo spazio catartico dell’autocoscienza ai codici malavitosi impartitegli obtorto collo, sia all’egemonia dello spirito sulla materia che sprigiona l’essenza della fabbrica dei sogni in Sicilian ghost story quando l’anima del bimbo destinato a essere disciolto nell’acido per punire il padre divenuto collaboratore di giustizia trabocca dal corpo ormai ridotto al lumicino.
L’inversione di tendenza costituita da Iddu – l’ultimo padrino risiede soprattutto nei risvolti grotteschi d’un poliedrico apologo sulla logica spietata del potere zeppo di sapide prospettive figurative ed echi per pochi intimi. A partire dal personaggio di Matteo Messina Denaro, interpretato con insolita misura recitativa dal versatile Elio Germano, che si diletta a leggere durante la lunga latitanza le sacre scritture e a finire di comporre un puzzle della natìa Sicilia. Coniugando tra le righe il senso di appartenenza insito nel legame di suolo insieme al gusto assai avvertito nonché divertito dell’intrigo. Il rapporto epistolare instaurato col suo vecchio padrino, che Toni Servillo incarna in chiave decisamente istrionica, conferisce alla trama una debita cornice burlesca ed evocativa. Mentre gli sporadici tuffi nel passato pagano dazio lì per lì alla velleità di cospargere l’intreccio di piste troppo programmatiche per divenire pure immersive ed empatiche, a differenza della meccanica thrilling dispiegata in Salvo per cadenzare il passaggio dalla cecità al redivivo campo visivo e del corto circuito immaginifico di Sicilian ghost story, il ritratto dell’ex politico colluso con cosa nostra che tenne a battesimo il temuto boss fedele ai precetti paterni risulta azzeccatissimo.
Giacché riecheggia la vivacità di racconto delle migliori commedie corrosive d’oltreoceano ed europee nei duetti coniugali del vecchio sindaco Catello Palumbo, convinto dai servizi segreti a tendere un surrettizio calappo al temuto figlioccio per rimettersi in carreggiata dopo aver scontato una pesante condanna, a cui corrisponde l’intesa stabilita sul filo del rasoio dal pezzo da novanta sfuggito all’arresto con l’alacre signora Lucia (Barbora Bobuľová, in grande spolvero) che lo nasconde dentro casa, lo lascia in compagnia degli appetitosi profili di Venere e mette nero su bianco le missive dettate sulla scorta dell’alta densità lessicale frammista all’identificativa calata trapanese. Betty Pedrazzi, già memorabile nel ruolo della saccente contessa in É stata la mano di Dio, conferma le proprie doti di attrice coi fiocchi sfruttando al meglio le poche pose concessele per dare il giusto spessore psicologico alla vetusta ma arzilla Elvira con la battuta canzonatoria sempre pronta nei riguardi del consorte uscito di prigione Al contrario la pur brava Antonia Truppo nelle folcloristiche vesti della riverita sorella del pezzo grosso lontano, identificato col pronome locale “iddu”, appare eccessivamente macchiettistica. Al contesto invece opportunatamente ironico dell’opera-mosaico, che alleggerisce la drammaticità degli eventi connessi alle ennesime ed emblematiche vicende di lacrime e sangue, si va ad amalgamare step by step l’accertamento della verità ad appannaggio del genere poliziesco. A braccetto con la fenomenologia esistenziale degli affreschi introspettivi.
In tal modo l’intarsio satirico, con le punture di spillo riservate altresì all’operazione farsa dell’intelligence italiana, che si rivela per l’appunto uno specchio per le allodole a dispetto dell’abnegazione del gendarme in gonnella (una convincente Daniela Marra) privilegiando il mesto cipiglio alla grazia muliebre, cede all’irrompere stavolta persuasivo del flashback degli inni liturgici necessari all’iniziazione criminale e al carattere d’ingegno creativo dell’epilogo. La ripresa subacquea conclusiva che richiama alla mente inobliabili chicche per intenditori – da L’Atalante a La morte corre sul fiume – conduce Iddu – l’ultimo padrino nel patheon degli apologhi visionari che nutrono d’ilarità il cupo delirio di onnipotenza dei brutti ceffi avvezzi a sontuosi cerimoniali e ricavano dal sovrano controllo dei movimenti scenici l’impatto intellettuale ed emotivo garantito dagli esperti maestri abituati a padroneggiare a dovere la bacchetta magica della settima arte. Da oggi in poi quel circolo elitario ospiterà con assoluto merito Fabio Grassadonia e Antonio Piazza in virtù della loro vena multiforme. Ora mordace, ora ricercata. Alla stregua del dotto saggio di costume che consolida il controcampo carico d’umanità ed estro dell’humour nero.
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