Eletto unanimemente dalla critica ad autore con la “a” maiuscola col film d’esordio Una femmina, in grado di trarre linfa dall’erudito ed empatico lascito pasoliniano per scandagliare i disvalori ritenuti valori in seno alla classica famiglia autoctona nell’entroterra dell’Aspromonte dove i fittizi uomini d’onore legati alla ndrangheta fanno il bello e il cattivo tempo, l’ambizioso regista calabrese Francesco Costabile sembra voler imprimere pure nella successiva fatica cinematografica, Familia, la medesima cifra stilistica.

Fondata quindi sulla forza significante dei volti, d’ascendenza neolitica, sullo spessore simbolico delle mura casalinghe, con la pregnanza evocativa del lavoro di sottrazione delle porte chiuse in cui l’atroce violenza domestica raggiunge lo zenith, e soprattutto sugli scenari da brivido degli horror spuri, già cari a Saverio Costanzo sia sul grande sia sul piccolo schermo, congiunti, tanto in prassi quanto in spirito, ai profondi, se non ancestrali, timbri antropologici ed etnografici.

La conoscenza intima della materia rappresentata, impreziosita nell’efficace debutto dalla sapida contaminazione dei generi, ben lungi dal seguire le orme dei nani sulle spalle dei giganti, cede però adesso spazio ai plagi camuffati da omaggi. Rinvenibili subito nella partita di calcio dei bimbi di borgata sulle strade di Quartaccio interrotta dal padre prevaricatore, che richiama alla mente Mamma Roma del nume tutelare Pier Paolo Pasolini, e nell’insicurezza del manesco genitore incline a mostrare il nervo scoperto quando domanda alla moglie distesa sul letto tra le braccia di Morfeo a quale altro partner pensa nel momento dell’amplesso sulla falsariga di Jake LaMotta in Toro scatenato dell’applaudito Martin Scorsese. Al carattere d’autenticità sciorinato in terra natìa, per poi trasfigurarlo col sentimento d’insicurezza ad appannaggio dei thriller introspettivi e con la psicopatologia degli apologhi visionari, non corrisponde dunque più il carattere d’ingegno creativo necessario a rendere misterioso il disadorno paesaggio morale messo in scena. L’egemonia del limitante déjà vu sulla fragranza dell’originalità traligna così la tensione figurativa dell’incipit, ravvisabile in particolare nel leitmotiv della soglia sbarrata che esacerba i traumi infantili, in un’infeconda iterazione. Costabile ha una percezione molto teorica, ed ergo poco fedele alla realtà, dell’hinterland capitolino rispetto ai paesini dei promontori afflitti dai codici attanaglianti dell’associazione malavitosa di stampo agro-pastorale. Ne consegue un’interazione fra interni ed esterni assai programmatica. Al pari di quella posta in essere fra suoni diegetici ed extradiegetici.

L’ovvio rimando ad American History x, che svela il passaggio all’età adulta dell’introverso Gigi, deciso a trovare l’agognata sicurezza in sé stesso negatagli dagli scatti d’ira del volubile capostipite nell’affiliazione all’estrema destra, ne certifica l’incapacità ormai di caricare di senso l’indispensabile crudezza oggettiva. Gettata alle ortiche vendendo crusca per farina attraverso l’insistito ricorso alle pleonastiche correzioni di fuoco. I contorni sfocati che sottolineano l’indeterminatezza del focolare familiare, stretto d’assedio dal ritorno all’ovile dell’ennesimo lupo che perde il pelo ma non il vizio, trascinano l’antiretorica di partenza, attinta ai maestri neorealisti, nell’enfasi manieristica dei mélo tagliati con l’accetta. L’affetto di Gigi per la mamma Licia, manipolata dal coniuge sempre prossimo a imboccare la via di Damasco prima di rimettere piede nel nido negato dalla legge, la complicità con il fratello Alessandro, nel ricordo degli shock patiti mano nella mano durante la fanciullezza, la tavola imbandita a festa, i silenzi spaventevoli, le diverse tecniche di straniamento testimoniano la penuria del polso fermo di chi padroneggia appieno l’emblematica scrittura per immagini. Senza cadere nell’impasse delle idee prese in prestito. I tagli di luce, privi dei riferimenti impliciti ai vari Piero Della Francesca e Hieronymus Bosch che ispirarono Pasolini per approfondire le sfumature chiaroscurali dei malincomici personaggi schiavi del loro habitat, evidenziano un uso espressionista piuttosto superficiale.

Lo sviluppo drammatico del racconto non contempla neanche un’oncia della feroce ed epidermica ironia vernacolare connessa allo squallore periferico e all’utopia di affrancarsi dall’infame destino. Familia preme in tal modo l’ovvio pedale effettistico corredando gli scontati passaggi dalla speranza alla disillusione d’inutili slow motion, di compiaciute inquadrature ravvicinate alla Michael Mann, di mesti nonché tediosi presagi che appartengono al repertorio delle pellicole di grana grossa. Anziché alla sottigliezza dei capolavori intenti ad accrescere sul serio la coscienza civile del pubblico. Lo spettacolo recitativo supera infatti di gran lunga l’inane sforzo d’inserire qualche spunto personale, profondamente sentito, nel risaputo impasto di sopraffazione, reazione e redenzione. Francesco Di Leva incarna l’incorreggibile marito geloso che non sa mutare segno per ottenere il perdono della propria prole recitando con gli occhi. Barbara Ronchi gli tiene testa sulla scorta del compiuto gioco fisionomico che passa dall’inerzia della consorte sotto schiaffo all’orgoglio d’una mamma grintosa con la stessa precisione di semitoni. Francesco Gheghi alias Gigi al contrario gigioneggia preferendo gli accenti al sottosuolo dei gesti. Costabile tenta di catturarne, oltre agli sguardi pieni ora di sgomento ora di rabbia, anche il frenetico linguaggio del corpo. Tuttavia Familia finisce per privilegiare le modalità esplicative delle opere a tesi che strappano l’applauso solo del pubblico a corto di visioni realmente d’autore. Trascurando il guizzo estroso dei movimenti scenici avvezzi a varcare la soglia del dolore e scoprire nei ritmi gravi ma catartici l’antidoto all’orrore.


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