Nell’esordio dietro la macchina da presa con l’action comedy Thelma l’avventizio regista statunitense Josh Margolin, più avvezzo alla stesura di sceneggiature incentrate sull’ancestrale sentimento d’insicurezza caro ai thriller carichi di mistero che alla scrittura per immagini degli apologhi crepuscolari colmi di pathos, cerca d’acquisire subito i requisiti dell’autore tout court.
Tuttavia lo spettacolo di secondo piano della recitazione, com’è definito dai seguaci della pervicace ma ormai vetusta politique des auteurs, offre maggiori motivi d’interesse rispetto alle labili soluzioni espressive escogitate da un pretenzioso show alle prime armi. Predominante solo in teoria.
Alla prova dei fatti, quantunque la cura scenografica – dall’abitazione dell’arzilla novantatrenne Thelma Post all’ospizio dove vive l’amico del cuore sino ad arrivare ai sapidi scorci panteisti – riveli un’apprezzabile conoscenza intima della materia rappresentata, ovvero il mondo della terza età visto dall’angolazione sia dell’emozionante legame di sangue sia dell’emblematico divario generazionale, l’assoluta destrezza mimica della veterana June Squibb va in profondità. Mentre lo sporadico pedinamento zavattiniano attinto in chiave parodistica, i disinibiti zoom ora in avanti, ora all’indietro, ed ergo la voluttà di sciorinare una piena padronanza della tecnica cinematografica si barcamenano in superficie. Sulla scorta dei velleitari segni d’ammicco. Riscontrabili soprattutto nella mescolanza di toni spesso e volentieri fine a sé stessa. Quando la vecchietta abbocca all’amo della classica truffa perpetrata ai danni della gente prossima a coniugare l’esistenza all’imperfetto, il tessuto narrativo cambia pelle.
La trama, lì per lì piuttosto povera d’azione, che scandagliava l’intesa di Thelma col nipote nerd, svelto a impartirle le nozioni basiche concernenti l’universo della rete internet, comincia a sfruttare le risorse fornite dal montaggio. L’inversione di tendenza costituita dal dinamismo dell’azione non nuoce alla scioltezza dello scontato racconto, che perde però strada facendo l’efficacia introspettiva garantita dapprincipio dalla consumata psicotecnica attoriale della Squibb, senza mai toccare le vette raggiunte da capolavori del genere tipo The Blues Brothers. L’aria intimistica ed elegiaca alla A spasso con Daisy cede così il passo agli stilemi della narrativa popolare di grana grossa. La sostanziale prevalenza di spunti sarcastici, sapide prospettive figurative, peripezie inverosimili, a cui concorre il valore terapeutico dell’umorismo, alieno alla tendenza a prendersi troppo sul serio dei thriller adrenalinici, manda a carte quarantotto il taglio lucido delle sequenze d’inizio film.
L’indiscutibile valenza del ritmo impresso attraverso la compiaciuta cornice burlesca stenta in ogni caso ad accorpare in maniera organica i siparietti esilaranti e le pieghe melodrammatiche. Il disegno dei caratteri, divenuto assai poco pungente col riscatto dell’aziana nonnetta che restituisce pan per focaccia a chi le aveva teso un surretizio calappo profittando del buon cuore, paga dazio a un avvicendamento programmatico ed effettistico. La resa dei conti pesca dunque nell’ovvio. Al pari degli sviluppi inopinati di una vicenda parecchio risaputa. Fortunatamente in zona Cesarini i chiaroscuri padroneggiati dall’alacre Squibb trascendono la melassa sentimentale delle presunte squisitezze formali. Tornate a galla a dispetto della compiutezza contenutistica rinvenibile nel confronto tra personaggi ed elementi ambientali. Aggiungendo la solita collana d’imprevisti alla sagacia di allentare le tensioni con la tenera e pacata buffoneria di un’interprete molto comunicativa, meritevole di ricevere nuovi applausi, Thelma mostra – gira, gira – la corda. A differenza dei densi e arguti dramedy abituati a lasciare al palo modelli retorici, facezie farsesche ed empiti consolatori.
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