Decisa ad amalgamare repulsione ed emozione sulla falsariga degli inobliabili cult movie Freaks di Todd Browning e The elephant man di David Lynch, l’ambiziosa regista transalpina Stéphanie Di Giusto, dopo aver diretto l’intenso biopic Io danzerò incentrato sulla pionieristica ballerina moderna Loïe Fuller, cerca di alzare l’asticella con l’evocativo apologo sulla diversità muliebre Rosalie.

Il rinvenimento dell’alterità, intesa come qualcosa che trascende dall’ordinario, collima nel film in questione con la mostruosità. Oggetto di derisione o di ribrezzo da parte sia dell’alta società sia del popolino a corto di empatia. Ragione d’immane sconforto per la donna, Rosalie per l’appunto, affetta da irsutismo.

La crescita dei peli in tutto il corpo, che converte gli ormoni conformi all’ordine naturale delle cose in deleterio didrotestosterone, innesca un rigoroso lavoro di sottrazione. Intento però più ad accentuare l’ordinario stato affettivo d’attesa – per tenere sui carboni ardenti gli spettatori dai gusti semplici ansiosi di scoprire la reazione della piccola comunità francese di tardo Ottocento dinanzi al redivivo coraggio di gettare la maschera dell’immusonita ma coriacea signora barbuta – che ad anteporre la forza significante dei semitoni, apprezzati dalle platee elitarie, agli infecondi soprassalti mélo. L’aria d’epoca, connessa al bisogno di veicolare l’attenzione del pubblico tanto dal palato fine quanto dalla bocca buona attraverso l’uso quasi sistematico del deep focus, tradisce l’inane ricorso alle componenti manieristiche d’ogni prevedibile opera a tesi. Sprovvista dell’effettiva capacità di scrivere con la luce ponendo idealmente l’accento sugli aspetti della trama da chiarire palmo a palmo. Per mezzo in primo luogo del carattere misterioso della poesia. Sostituito dall’infertile compensato del poeticismo. Che, a furia di aggiungere la stucchevole cura dei particolari ai colori soffusi dell’indocile alcova in cui Rosalie confessa il terribile segreto dipanato lungo l’intera epidermide all’inorridito consorte sul lastrico attratto solo dalla sua dote, traligna l’opera a tesi in melensa soap-opera. In tal modo l’inopportuna egemonia dell’enfasi di circostanza sulla dotta antiretorica traligna persino le incisive sequenze a lume di candela, le idee prese in prestito da Stanley Kubrick in Barry Lindon (specie per il ripiego panteistico dei campi lunghi assurti ad antidoti contro i claustrofobici spazi domestici) e certi scorci paesaggistici d’indubbia suggestione nel solco del pleonastico vedutismo connesso all’impasse dei plagi camuffati da omaggi.

Manca all’appello, oltre al carattere misterioso della poesia, anche, se non principalmente, quello d’ingegno creativo. Necessario a conferire alle preghiere silenziose, ai chiassosi scoppi d’ira dei reduci dalla guerra, abituati a ben altri orrori, all’interazione tra habitat ed esseri umani l’elogio dell’assurdo ad appannaggio degli autentici maestri della fabbrica dei sogni. Così invece il taglio delle inquadrature rivelatorie, la composizione dell’immagine, avvezza all’alacre tenuta geometrica dell’insieme anziché alla densità espressionista delle dissonanze figurative in grado di mettere davvero in rilievo il peso morale della discordanza, la gabbia familiare, l’acredine dei benpensanti trasformati in villici non deviano affatto dagli incubi a occhi aperti triti e ritriti. Sia pure ammantati da un’eleganza formale che dovrebbe in linea teorica riverberare il garbo dello spirito nascosto dietro la sofferta materia pelvica. L’assoluta penuria contenutistica, al di là dei nobili echi e del racconto vecchio stampo comunque ben condotto, secondo canoni largamente sfruttati, impedisce a Rosalie di veder premiate le buone intenzioni. Evidenziando la deleteria battuta d’arresto d’uno sguardo visionario a scartamento ridotto.


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