Deciso ad appaiare lo spirito di verità rinvenibile nell’approccio semidocumentaristico alla virtù malincomica di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente, per andare oltre i limiti dei meri esercizi calligrafici ed esibire una scrittura per immagini carica di senso, l’ambizioso regista afghano Babak Jalali antepone in Fremont, come nel previo Radio dreams, lo spessore contenutistico dell’indagine sociale all’esilità del compiaciuto gioco formale. Nondimeno il chiodo fisso dell’arduo inserimento dei compatrioti, rifugiati negli Stati Uniti, in fuga dall’egida repressiva del mullah Mohammed Omar, rischia di pagar dazio all’impasse di veleggiare in superficie anziché approfondire i sempiterni stilemi dell’universo esistenziale già caro ad Antonioni.
Il tema dell’alienazione legato al valore terapeutico dell’umorismo torna così ad assumere il ruolo quasi inquisitorio dell’apologo antropologico ed etnografico che congiunge le croniche ragioni d’insicurezza del thriller spurio alla stravaganza delle situazioni perennemente sospese. Dovute tanto alla punta di spina dell’attanagliante solitudine quanto alle nuvolette buffonesche sollevate sopra
l’impassibilità dell’immusonita protagonista, Donya, attinta a piene mani ai dramedy eccentrici ed empatici di Jim Jarmush, Aki Kaurismäki e Kevin Smith. Il fine della rappresentazione, in cui lo spettro del déjà-vu trascina sin dall’incipit l’auspicabile carattere d’ingegno creativo nell’inerzia dei nani sulle spalle dei giganti, sembra essere quello comunque di convertire in sapida leggerezza la radice dell’opprimente disperazione umana. Che ricava forse anche troppi spunti dai diversi numi tutelari. Connessi però ai desueti esami comportamentistici dell’affresco introspettivo d’ascendenza bergmaniana e ai motivi ricorrenti dell’aguzza satira di costume.
L’interazione con l’habitat, sia esso l’emblematico microcosmo di esuli sito nella città che dá il titolo al film o il ristorante cinese della limitrofa San Francisco dove Donya sgobba redigendo pure gli aforismi riposti nei biscotti della fortuna, pur confermando la salda presa evocativa dell’erudito cinema d’atmosfera, traligna in vane macchiette certe figure di fianco, tipo la discordante coppia dei principali, pensate dapprincipio per convertire la melansaggine della soap opera nella fragranza espressiva dell’opera a mosaico. Sulla scia dei compianti Robert Altman ed Ettore Scola. Mentre il mix d’inquadrature sghembe, dal basso verso l’alto, d’insistite correzioni di fuoco e di scontati pedinamenti zavattiniani non serve a cogliere la tensione segreta nei rapporti dei vari personaggi, bensì ad aggiungere ulteriore carne al fuoco ai colpi di gomito per presunti intenditori, l’ausilio d’uno sporadico ma efficace interludio onirico impreziosisce la nota intima del racconto. Che lascia spazio a qualche deleterio sbadiglio qualora cala in ritmi lenti e risaputi il bisogno di vincere le sottili ingiurie giornaliere.
L’inversione di tendenza, che privilegia il faceto richiamo dell’avventura alla sensazione di straniamento promossa dapprincipio ad antidoto contro qualsivoglia polpetta romanzesca, tiene invece desto l’interesse d’ogni platea, ingenua ed esperta, dispiegando in Fremont le frecce di Cupido nell’ambito d’un viaggio all’insegna dell’agognata originalità. È quindi con l’improvvisato road-movie che Babak Jalali mette, una buona volta, la farina del suo sacco. Rapendo persino nella commozione il pubblico, prima stufo dei consueti plagi contraffatti da omaggi, grazie alla provvidenziale sterzata impressa con la sobrietà d’accenti, l’asprezza dei gesti e la dolcezza degli sguardi. In grado d’inserire l’ostentata durezza delle cose in un fecondo impasto fiabesco.
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