Il cinema giapponese, con le sue creature titaniche, storie intrise di simbolismo e visioni apocalittiche, ha segnato profondamente l’immaginario collettivo mondiale. In questo affascinante viaggio attraverso il tempo e lo spazio, Omar Serafini ci guida con il suo libro “Ai confini di Latitudine Zero”, esplorando i miti, le paure e la straordinaria fantasia del cinema fantastico nipponico dal 1933 al 1999. Dai colossi come Godzilla e Gamera, fino alle gemme più rare, Serafini svela come il Giappone sia riuscito a trasformare il proprio trauma storico in un linguaggio universale di emozioni e spettacolo.
Ecco cosa ci ha raccontato in questa ricca intervista, tra curiosità, riflessioni e consigli per i cultori del genere.
Origini e ispirazione del libro
“Ai confini di Latitudine Zero” è un viaggio unico nel cinema fantastico giapponese. Come è nata l’idea di scrivere questo libro e cosa ti ha spinto a esplorare proprio questo argomento?
Devi sapere che il mio ricordo della mia prima esperienza al cinema risale al 1970, all’età di 5 anni, quando con i miei genitori vidi, in un cinema dell’hinterland milanese, “L’invasione degli astromostri”, che la distribuzione nostrana diede a “Kaijū Daisensō” di Ishirō Honda (1965: guarda caso il mio anno di nascita…). Abituato a guadare i programmi Rai in televisione, allora in bianco e nero, per me fu un’esperienza meravigliosa e sconvolgente e proiettato in quella vicenda di alieni, mostri giganteschi che “formattavano” intere città, draghi tricefali volanti, subii un “imprinting” per tutto ciò che era fantascientifico, alto più di 50 metri e possibilmente giapponese. Saltiamo ora quasi ai giorni nostri, nel 2006, quando presi la mia seconda laurea in Scienze e Tecniche della Comunicazione con una tesi su “Gli aspetti socio-culturali della filmografia di Godzilla dell’era Shōwa: ancora mi ricordo la faccia del mio relatore! In effetti, se vuoi, “Ai confini di Latitudine Zero” è la versione riveduta, corretta e ampliata di quella tesi. Cosa mi ha spinto a scrivere questo libro? L’hai perfettamente detto tu nella domanda: accompagnare i lettori che vogliono avvicinarsi a questo particolarissimo argomento, in una sorta di “viaggio” parlando di storie, eroi e protagonisti…
Cosa significa per te il titolo “Ai confini di Latitudine Zero” e come rappresenta il cuore del libro?
Il titolo del saggio si ispira a uno dei miei film di fantascienza giapponesi preferiti, “Latitudine Zero” di Ishirō Honda (1969), una pellicola che adoro e alla quale sono legato. “Ai confini” perché, senza fare spoiler, la cornice che circonda “Latitudine Zero” vive, nelle immagini della città-stato di Latitudine Zero, un piano onirico reso da una fotografia solare e sgranata, che rende ancor più crudo il contrasto con le realtà del mondo esterno: il film incarna perfettamente le idee espresse da Pedro Calderón de la Barca in “La vita è un sogno” (1635). Quel “Ai confini” significa proprio questo “sogni” circondati da crude e drammatiche “realtà”.
Gamera (1965)
Il periodo coperto dal libro (1933-1999) è molto ampio. Come hai selezionato i film, i mostri e le tematiche da includere nel tuo lavoro?
Nel lavoro di selezione della, passami il termine, playlist di pellicole e delle tematiche che trattano, ho cercato di proporre, o per dirla meglio, “accompagnare” i lettori nella visione di quelle che, secondo la mia modesta opinione, sono quelle più significative e importanti. Attenzione: questo significa che non necessariamente le pellicole che ho analizzato siano le mie preferite, in linea di massima si, ma ho anche riportato film che in tutta sincerità non rientrano nei miei canoni, ma che, per dovere di cronaca, ho citato lo stesso. Per due veri e propri “mostruosi protagonisti”, Godzilla e Gamera, data la loro importanza storico-sociale, ho analizzato l’intera filmografia del periodo storico trattato nel saggio. All’intero del saggio ci sono anche alcuni “intrusi” coreani e taiwan-thailandesi molto, molto interessanti.
Il fascino del cinema fantastico giapponese
Godzilla è uno dei mostri più iconici della storia del cinema. Secondo te, qual è il motivo del suo impatto culturale così duraturo nel tempo?
La creazione di Godzilla è probabilmente uno dei pochi e rarissimi casi in cui una nazione è riuscita ad incarnare in un personaggio cinematografico la consapevolezza della propria (drammatica) memoria storica. Alla sua nascita ha concorso la coscienza collettiva del Giappone: la paura, la memoria e la fantasia di questo popolo hanno evocato dalle acque di Tokyo un messaggero di distruzione, che riassume nella sua mole agghiacciante l’incubo meno recondito che il popolo giapponese possa covare dopo Hiroshima e Nagasaki: quello atomico. Nel corso della sua vita Godzilla è divenuto una vera e propria icona pop, tanto che, nel 1982, la rivista quattordicinale statunitense Time, indette un sondaggio sulle dieci icone pop più famose di tutti i tempi: Godzilla risultò al terzo posto (giusto per la cronaca: al primo posto si era classificato Gesù Cristo, al secondo la band rock statunitense KISS, al quarto il gruppo musicale statunitense Village People e al quinto Buddha). Nel 2015 il franchise di Godzilla è entrato ufficialmente nel Guinness dei primati come il franchise cinematografico più longevo di tutti i tempi.
Godzilla (1954)
Accanto a Godzilla, troviamo altri mostri leggendari come Gamera, Matango e le creature mitologiche giapponesi come kappa e oni. Quale di queste figure ti affascina di più e perché?
Trovo tutta la mitologia e folklore giapponese estremamente interessante e affascinante. La coscienza mitologico-folkloristica in decine di culture si è andata progressivamente spegnendo con l’avvento del cosiddetto “progresso”. Per assurdo il Giappone, forse il più tecnologicizzato paese al mondo, ha invece portato con sé nel futuro il proprio patrimonio di creature magiche, spettrali e mostruose.
Gamera (1965) poster
La fantascienza giapponese ha una forte connessione con il trauma nucleare e la paura della mutazione. Come questa tematica è stata trattata nei film che hai analizzato?
Assolutamente si. In gran parte del cinema fantastico giapponese del periodo che tratto nel saggio è permeato di questi traumi e paure: nell’agosto del 1945 due funghi di atomica devastazione fecero trasalire d’orrore il mondo intero. Centinaia di migliaia di anime si sciolsero quando le città di Hiroshima e Nagasaki vennero spazzate via dalle onde d’urto atomiche, dalla potenza di un “male necessario” che pose fine a una guerra. La guerra finì, le radiazioni rimasero e con esse il ricordo. Da allora il Giappone esorcizza il male col male attraverso fantasie allucinate dei suoi narratori, regalando nuovi incubi alle generazioni futuro del mondo.
Eiji Tsuburaya (creatore Godzilla)
Analisi del cinema e delle sue influenze
Nel libro parli di “strade della mutazione e della paura”. In che modo questi concetti vengono esplorati nel cinema giapponese e quali film rappresentano meglio questi temi?
Il cinema giapponese ha da sempre saputo esplorare le profondità della psiche umana, attingendo a un ricco patrimonio di miti, leggende e paure ancestrali. Un tema ricorrente e particolarmente affascinante è quello della mutazione, spesso intrecciato con la rappresentazione della paura e dell’orrore. Gli eventi storici, come le guerre e le catastrofi naturali, hanno lasciato un profondo segno nella cultura giapponese, influenzando la rappresentazione della mutazione come simbolo di trauma e cambiamento radicale. La mutazione incarna la paura dell’ignoto, del diverso e di ciò che sfugge al controllo rappresentando il conflitto tra la natura umana e le forze della natura, tra istinti primordiali e civiltà. La mutazione nel cinema giapponese è un tema complesso e affascinante, che va ben oltre la semplice rappresentazione di mostri e creature deformi. Essa rappresenta una profonda riflessione sulla condizione umana, sulle paure più ancestrali e sui rapidi cambiamenti che caratterizzano il mondo contemporaneo. Se devo scegliere dei film che meglio rappresentano questa riflessione consiglierei “Godzilla” di Ishirō Honda (1954); la “Trilogia della Mutazione” della Tōhō, composta dai tre film: “Uomini H” sempre di Honda (1958), “Densō Ningen” di Jun Fukuda (1960) e “Una nube di terrore” sempre di Honda (1960), uno dei capolavori assoluti di Ishirō Honda “Matango il mostro” (1963) ed infine la cosiddetta “trilogia Yōkai Monsters”: “Yōkai Hyaku Monogatari” di Kimiyoshi Yasuda (1968), Yōkai Daisensō” di Yoshiyuki Kuroda (1968) e “Tōkaidō Obake Dōchū” sempre di Yasuda (1969).
Matango il mostro (1963)
Il folklore e le leggende giapponesi sono una fonte inesauribile di storie e personaggi. Quanto è stato importante il folklore tradizionale nel cinema fantastico giapponese?
Il folklore e le leggende giapponesi hanno profondamente influenzato il cinema nipponico, diventandone un elemento distintivo e affascinante. Le antiche storie di yōkai, spiriti e creature mitologiche hanno trovato una nuova vita sullo schermo, affascinando sia il pubblico locale che internazionale. Il folklore giapponese è ricco di storie tramandate oralmente per secoli, riguardanti spiriti della natura, creature soprannaturali e figure leggendarie. Queste storie sono intrinsecamente legate alla cultura e alla spiritualità giapponese. Gli elementi del folklore, come i yōkai, rappresentano spesso paure, desideri e aspetti della natura umana. Analizzando questi elementi, si possono scoprire significati più profondi e comprendere meglio la società giapponese. L’uso di elementi folkloristici crea un’atmosfera unica nei film, mescolando elementi di paura, mistero e bellezza.
Latitudine Zero (1969) poster
Il concetto di “utopia fantatecnologica” è centrale in film come “Latitudine Zero”. Cosa rappresenta questa utopia e come viene presentata nel contesto della cultura giapponese?
L’utopia fantatecnologica è un tema affascinante che permea molte opere di fantascienza, non solo giapponese. Nel contesto di film come “Latitudine Zero”, questo concetto assume connotazioni particolari, profondamente radicate nella cultura e nella storia giapponese. L’utopia fantatecnologica è una visione idealizzata del futuro, in cui la tecnologia risolve tutti i problemi dell’umanità, creando una società perfetta e armoniosa. In questo tipo di utopia, la tecnologia è vista come una forza salvifica, capace di superare i limiti umani e di creare un mondo migliore. Nel cinema giapponese, l’utopia fantatecnologica spesso si intreccia con temi più profondi, come: Il rapporto tra uomo e natura (la tecnologia viene spesso contrapposta alla natura, e l’utopia diventa un luogo in cui l’uomo domina la natura, modificandola a proprio piacimento), la perdita dell’identità (In un mondo dominato dalla tecnologia, l’individuo rischia di perdere la propria umanità, diventando una semplice appendice di una macchina) e la paura del progresso (l‘utopia può nascondere una profonda paura del progresso tecnologico e delle sue conseguenze incontrollabili). La rappresentazione dell’utopia fantatecnologica nel cinema giapponese è influenzata da diversi fattori: il mito del progresso (come in molte altre culture, il mito del progresso ha profondamente influenzato la società giapponese, alimentando la speranza in un futuro migliore grazie alla tecnologia), la paura del nucleare (l‘esperienza delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki ha lasciato un segno indelebile nella coscienza collettiva giapponese, generando una profonda ambivalenza nei confronti della tecnologia) e Il concetto di mono no aware (questo concetto, che indica la consapevolezza della transitorietà delle cose e della bellezza della malinconia, introduce una nota malinconica nell’utopia tecnologica, sottolineando la fragilità di ogni costruzione umana). l’utopia fantatecnologica nel cinema giapponese è un tema complesso e sfaccettato, che riflette le contraddizioni e le ambivalenze della società giapponese. Da un lato, c’è la speranza in un futuro migliore, reso possibile dalla tecnologia; dall’altro, c’è la paura delle conseguenze incontrollabili del progresso e la perdita dell’identità umana.
Latitudine Zero (1969)
Collaborazioni e contributi esterni
Il libro vanta la partecipazione di esperti e studiosi come Marco Casolino, Giuseppe Cozzolino, Andrea Guglielmino e molti altri. Come sono nate queste collaborazioni, quali contributi hanno portato al libro e quali momenti significativi ricordi durante la stesura?
In origine avevo chiesto a un Amico (di cui non rivelerò il nome…) di scrivermi una sorta di prefazione per “Ai confini di Latitudine Zero” ma poi la notizia si è diffusa ad altri Amici che hanno chiesto con entusiasmo di partecipare. Per evitare “gelosie ed incomprensioni” ho chiesto ad ognuno di loro di scrivere, in piena libertà ed autonomia, un intervento sull’argomento principale del saggio che serviva un po’ come un intervallo fra un capitolo e l’altro. Devo dire che sono rimasto soddisfatto ma soprattutto colpito della qualità e dallo spessore di tutti questi interventi, anche se, vista la caratura di questi Personaggi (giornalisti, critici cinematografici, professori universitari), non nutrivo nessun dubbio sulla qualità delle collaborazioni.
I misteriani (1957) poster
Approccio metodologico e processo creativo
Come hai organizzato il processo di ricerca e scrittura di un’opera così complessa e ricca di riferimenti culturali?
Ho cercato di approcciare il processo di ricerca/scrittura con una metodologia quasi, consentimi il termine, “aziendale”. Prima di tutto ho dovuto suddividere l’argomento “cinema fantastico giapponese” in macrogeneri, poi all’interno di questi macrogeneri ho cercato di selezionare le pellicole più interessanti e significative (e certe volte “sforando” citando film dei vicini coreani). Come dicevo prima, per due macrogeneri, Godzilla e Gamera, dato la loro importanza e popolarità ho preferito riportare l’intera filmografia del periodo che prende in esame il libro.
Ishiro Honda (regista Godzilla)
Quali fonti hai utilizzato per approfondire la storia del cinema giapponese? Hai consultato archivi, interviste o materiale raro?
Domanda dalla risposta quasi a livello “gigantesco”! Dunque mi sono basato soprattutto su saggi statunitensi, che, secondo la mia modesta opinione, attualmente sono quelli più completi e su saggi giapponesi. Per quanto riguarda le fonti italiane, poche a dire la verità, mi è stato di fondamentale aiuto (e ispirazione…) quello che ritengo uno fra i migliori saggi mai realizzati: “Godzilla il re dei mostri – Il sauro radioattivo di Honda e Tsuburaya” di Davide Di Giorgio, Andrea Gigante e Gordiano Lupi. Internet è stata d’aiuto soprattutto nel reperire le fonti più curiose, interviste apparse su riviste/fanzine o siti e per la condivisione di materiale con gli appassionati. Voglio anche ringraziare alcuni Atenei, anche stranieri, che mi hanno permesso di consultare i loro archivi/biblioteche online.
Odissea sulla Terra (1967)
Qual è stata la parte più complessa del lavoro? La ricerca, la scrittura o la selezione dei contenuti?
Direi decisamente la parte di ricerca, seguita quella della selezione dei contenuti, intesi come le pellicole che ho trattato. Sono spesso incappato in fonti contrastanti fra di loro o, soprattutto per quanto riguarda le edizioni italiane, con fonti totalmente inesistenti. Da questo punto di vista devo ringraziare il team della casa editrice con cui ho effettuato una verifica incrociata delle fonti, lavoro che in effetti è stato quello più arduo. Al secondo posto metterei la selezione dei contenuti, in cui ho cercato di essere il più “imparziale” possibile nella loro proposta.
Curiosità e approfondimenti sui contenuti
Il cinema giapponese di questo periodo ha influenzato il cinema occidentale in modo significativo. Puoi farci qualche esempio di queste influenze?
Il cinema giapponese ha esercitato un’influenza profonda e duratura sul cinema occidentale, arricchendolo con nuove prospettive, estetiche e tematiche. Il cinema giapponese, soprattutto quello di genere, ha introdotto nel cinema occidentale una nuova estetica visiva, caratterizzata da atmosfere cupe, luci soffuse, inquadrature suggestive e una predilezione per i primi piani. Registi come Akira Kurosawa hanno influenzato maestri del cinema occidentale come Sergio Leone (film come “Il buono, il brutto e il cattivo”, sono fortemente influenzati dal cinema di Kurosawa) e George Lucas (ha ammesso di essersi ispirato a “La fortezza nascosta” er creare l’universo di Star Wars). Film giapponesi hanno esplorato temi universali come l’onore, la lealtà, la giustizia e il conflitto tra tradizione e modernità. Questi temi hanno trovato eco nel cinema occidentale, ispirando registi a riflettere sulla condizione umana in modo più profondo. Il cinema giapponese ha offerto al cinema occidentale una preziosa fonte di ispirazione, contribuendo a diversificare e arricchire il panorama cinematografico globale. L’influenza del cinema giapponese si può ancora sentire oggi, e continuerà a farlo nei prossimi anni.
Il film “Tetsuo” di Shinya Tsukamoto è una pietra miliare del cyberpunk giapponese. Qual è il suo impatto sul cinema di fantascienza globale e come lo analizzi nel libro?
“Tetsuo” di Shin’ya Tsukamoto rappresenta un singolare tuffo nel mondo underground della fantascienza giapponese. È stato il primo lungometraggio del cineasta giapponese dopo una serie di cortometraggi e partecipazioni al teatro sperimentale giapponese. Dopo aver vinto il Gran Premio al Fantafestival 1989 di Roma, il film è cresciuto in popolarità in Giappone, diventando un blockbuster nel mercato home video per il cinema non-mainstream. Al di fuori del Giappone, la critica lo ha paragonato ai lavori dei registi Sam Reimi, David Cronenberg e David Lynch, pur trovandolo un film originale e difficile da analizzare. Nel saggio ho cercato di “trasferire” al lettore le sensazioni che mi ha trasmesso con il suo montaggio rapido, l’aggressiva soundtrack industrial e la sgranata fotografia in bianco e nero.
Tomoyuki Tanaka (produttore Godzilla)
Parliamo dei fantasmi giapponesi, uno degli elementi più iconici del cinema horror nipponico. Cosa distingue i fantasmi giapponesi da quelli occidentali e quali film hai incluso nel libro per rappresentare questa figura?
I fantasmi giapponesi, o yūrei, sono un elemento fondamentale del folklore e del cinema horror nipponico, e presentano caratteristiche uniche che li distinguono nettamente dalle loro controparti occidentali. Gli yūrei sono spesso rappresentati come figure trasparenti, con lunghi capelli neri sciolti e un abito bianco. Le loro facce possono essere pallide e senza espressioni, oppure contorte dalla sofferenza. A differenza dei fantasmi occidentali, che possono assumere forme più variabili, gli yūrei hanno un aspetto più standardizzato. Gli yūrei sono spesso gli spiriti di persone morte in circostanze tragiche, come suicidi, omicidi o morti premature. Questo li rende figure cariche di dolore e rancore, che spesso cercano vendetta. Diversamente dai fantasmi occidentali, che a volte sono semplicemente presenti per creare paura, gli yūrei hanno spesso motivazioni precise per apparire. Potrebbero cercare vendetta, avvertire qualcuno di un pericolo o semplicemente non essere pronti ad abbandonare il mondo dei vivi. I fantasmi giapponesi sono profondamente radicati nella cultura e nelle tradizioni nipponiche. Le loro storie sono spesso legate a leggende locali, credenze religiose e riti ancestrali. I film horror giapponesi che presentano yūrei creano spesso un’atmosfera di malinconia e nostalgia, oltre che di paura. L’enfasi è posta sulla sofferenza e sulla perdita, piuttosto che sul puro terrore. I fantasmi occidentali sono spesso associati a case infestate, cimiteri e storie gotiche, i fantasmi occidentali possono assumere forme molto diverse, da spettri trasparenti a creature mostruose. Le loro motivazioni possono essere varie, dalla semplice voglia di spaventare alla ricerca di vendetta. Gli yūrei sono più legati a un contesto culturale specifico, gli yūrei sono spesso associati a luoghi come pozzi, alberi o case abbandonate. Le loro storie sono spesso più personali e tragiche, e la loro presenza è spesso legata a un evento specifico. I fantasmi giapponesi sono molto più di semplici creature da paura. Sono la rappresentazione di paure profonde, di sofferenze ancestrali e di un legame indissolubile con la tradizione. La loro presenza nel cinema horror giapponese contribuisce a creare un’atmosfera unica e affascinante. Un film su tutti che ho incluso nel libro è “Kwaidan” di Masaki Kobayashi (1964), film ad episodi raffrontabile per grandiosità solo a “Sogni” di Akira Kurosawa, dall’impianto scenico curatissimo e sottolineato da una bellissima regia, supportata da splendidi effetti speciali, come dalla fotografia.
Atragon (1963) poster
Il pubblico e l’accoglienza del libro
Quali reazioni hai ricevuto dal pubblico e dalla critica sul tuo libro? C’è un feedback che ti ha particolarmente emozionato o sorpreso?
Direi buone: evidentemente il pubblico, e la critica, ha capito lo spirito del mio saggio. In effetti, anche prima del grosso successo del cosiddetto MosterVerse USA (il remake della saga di Godzilla in chiave yankee-occidentale: personalmente NON MI PIACE), quando parlavo di kaijū eiga (letteralmente “film di mostri”: è la denominazione originale – e corretta – giapponese dei film di Godzilla & Co.) e di cinema fantastico-fantascientifico giapponese a FantascientifiCast, il podcast di fantascienza di cui sono co-ideatore e showrunner, riscontravo che le puntate che questi argomenti risultavano fra le più ascoltate. Evidentemente la fascinazione per questo genere di cinema è veramente alta, forse sarà legata anche ad un fattore di “amacord generazionale”… Il feedback che mi ha particolarmente emozionato ed anche sorpreso è stato alla mia recente presentazione del saggio nell’ambito della 44ª edizione del Fantafestival di Roma, di cui permettimi di ringraziare Marcello Rossi e Luca Ruocco: l’interesse del pubblico presente in sala mi ha veramente emozionato…
Cosa speri che il lettore porti con sé dopo aver letto “Ai confini di Latitudine Zero”? Qual è il messaggio principale che desideri trasmettere?
Ho scritto questo libro pensando a una specie di “tutto quello che avreste voluto sapere sul cinema fantastico giapponese ma non avete mai osato chiedere”. Cioè notizie, informazioni e schede tecniche sulle pellicole e sulle persone che hanno concepiti e realizzato veri e propri miti, soprattutto per quanto riguarda i grandi mostri giapponesi. Se un libro serve a qualcosa è per comunicare. “Ai confini di Latitudine Zero” è un libro (anche se lo si vuole chiamare saggio): ha pur sempre un’anima di carta e inchiostro. Ho cercato di non trasformare un mezzo in un elenco di nome e avvenimenti, ma di narrare una storia, per quanto imperfetta e incompleta. La storia di un cinema popolato da grandi mostri, alieni e mitologie dagli occhi a mandorla.
Matango il mostro (1963) poster
Progetti futuri e consigli per gli appassionati
Hai già in mente un nuovo progetto editoriale o un libro in cantiere? Puoi anticiparci qualcosa?
Assolutamente si. Devi sapere che durante la stesura di “Ai confini di Latitudine Zero” era mia intenzione, alla fine di ogni capitolo, di riportare quelli che erano i progetti di film mai realizzati, ma poi mi sono accorto che spesso, anzi quasi sempre, questa parte superava di gran lunga, come contenuti, quella relativa ai film realizzati. Ho raccolto parecchio materiale su quest’aspetto, ed è interessante vedere il “percorso” lavorativo che ogni film, prodotto o no, ha avuto. Tutto questo materiale lo raccoglierò in un prossimo volume che, se vuoi, sarà una sorta di “super-appendice” di “Ai confini di Latitudine Zero”. In questo periodo sto invece lavorando alla stesura di un saggio sulla figura del “Mostro” nel Novecento.
I misteriani (1957)
Quali film o serie di fantascienza giapponese consiglieresti a chi si avvicina per la prima volta a questo mondo?
Bella domanda… dunque direi tutta l’era Heisei della filmografia di Godzilla: sono sette “capitoli”, strettamente legati fra di loro, che vanno visti assolutamente, che trattano da i viaggi nel tempo alla minaccia nucleare, ai pericoli della bioingegneria. Poi sicuramente tre capisaldi della filmografia fantascientifica giapponese (e non solo…) della cosiddetta “Golden Age”: “I misteriani” (1957), “Inferno nella stratosfera” (1959) e “Atragon” (1963) tutti e tre per la regia del “Maestro del fantastico” Ishirō Honda. Come serie TV consiglierei la visione di “Ryusei Ningen Zone”, una serie tokusatsu supereroistica prodotta dalla Tōhō, trasmessa dal 2 aprile al 24 settembre 1973 per poi venire cancellata dopo 26 episodi a causa della crisi petrolifera del 1973. La serie non è stata solo la risposta della Tōhō alle serie di Ultraman, ma anche al fenomeno degli henshin hero iniziato con Kamen Rider. La serie è oggi ricordata per la presenza di Godzilla, dove ha il ruolo di aiutante del eroe Zone Fighter, ed appaiono anche due nemici di Godzilla: King Ghidorah e Gigan. È inedita in italiana, ma è facilmente reperibile, nel mercato home video, nell’edizione USA intitolata “Zone Fighter”.
Odissea sulla Terra (1967) poster
Che consiglio daresti a chi volesse scrivere un saggio sul cinema o sulla cultura pop giapponese?
Cercare di aprire la mente e cercare di “immedesimarsi” nella cultura complessa e variegata come quella giapponese, capirne la storia e i risvolti socio-politici.
Tetsuo (1989)
Domande di chiusura e curiosità personali
Se potessi vivere in uno dei film analizzati nel tuo libro, quale sceglieresti e perché?
Sicuramente quello che ha contribuito, in parte, a dare il titolo al mio saggio e cioè “Latitudine Zero” di Ishirō Honda. È una pellicola al quale, personalmente, sono molto legato, un film decisamente fuori dal tempo, con un fascino analogo a quello dei vecchi pulp. Honda ha creato una storia decisamente naïf, che rievoca molte pellicole occidentali di fantascienza realizzate tra gli anni Trenta e Cinquanta, dove si respira una futuristica rivisitazione di luoghi magici quali Shangri-La e ancor più Agarthi. Un film come non se ne fanno più da tempo, genuino e sanguigno, carico di trovate e roboanti effetti speciali.
Godzilla (1954) poster
Quali sono i tre film di fantascienza giapponese che, secondo te, tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita?
In ordine rigorosamente cronologico: “Godzilla” di Ishirō Honda (1954), “Latitudine Zero” sempre di Honda (1969) e “Kwaidan” di Masaki Kobayashi (1964). Permettimi di aggiungerne un quarto, uno speciale outsider, “Sogni” di Akira Kurosawa (1990): poesia pura sotto forma di immagini…
Kwaidan (1964)
Se dovessi descrivere il tuo percorso con tre parole, quali sceglieresti e perché?
Precisione: nel mio lavoro cerco sempre di essere il più preciso possibile nel riportare date, credits e storie di ciò che racconto. Coinvolgimento: cerco sempre di trasmettere al lettore le sensazioni che la visione di un opera mi ha comunicato e last but not least un pò di pazzia, perché ce ne vuole un po’ per imbarcarsi nel raccontare argomenti così vasti, variegati e multi-strutturati.
Omar Serafini
Con “Ai confini di Latitudine Zero”, Omar Serafini ci dona una bussola per esplorare il vasto e suggestivo mondo del cinema fantastico giapponese. Tra mostri, miti e utopie tecnologiche, il saggio ci ricorda che, dietro l’apparente assurdità di un kaijū, si cela spesso una verità umana profonda e universale.
E voi, siete pronti a varcare i confini di Latitudine Zero?
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