Lo scopo della rappresentazione del mélo psicologico Solo per una notte risiede nel condensare attraverso la lodevole padronanza della scrittura per immagini le tensioni, gli slanci, i brividi concernenti tanto l’amore incondizionato quanto l’accoppiamento dovuto esclusivamente alla libido. Che anche con l’approdo alla terza età spinge le donne volontariamente single ad anteporre il piacere fugace del rapporto sessuale con un perfetto sconosciuto al vincolo d’attaccamento alle dinamiche relazionali.
All’esordio dietro la macchina da presa l’intraprendente regista elvetico Maxime Rappaz, artefice altresì della sagace sceneggiatura, trae partito da Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci per scandagliare il bisogno di abbandonarsi un giorno preciso alle pulsioni della concupiscenza senza voler approfondire la conoscenza sul versante individuale, mettendoci poi parecchia farina del suo sacco.
Lo dimostra il ricorso al lavoro di sottrazione mandato ad effetto per impedire alla geografia emozionale, che certifica l’implicito legame dei personaggi con l’ambiente circostante, di cedere alla tentazione dell’inidonea ridondanza poetica, o presunta tale, tralignata, a furia di aggiungere particolari pleonastici, in eccessivo ed effimero poeticismo. La necessità contemplativa dei campi lunghi, al riparo dunque dalle deleterie secche dell’enfasi panteista coinvolta nella maestosità di analoghi apparati, coglie nel segno. Mostrando l’intrinseca attinenza oggettiva dell’avvenente ed elegante sarta sessantenne Claudine col percorso compiuto ogni martedì per raggiungere l’hotel svizzero. Dove, dopo la consuetudine della lauta mancia grazie alla complicità di un concierge prodigo d’informazioni sui clienti in transito, dà sfogo al fuoco della passione con i brizzolati coetanei approcciati di volta in volta nella sala da pranzo dell’albergo. Il resto della settimana, dedicato sulla scorta dell’indefessa abnegazione sia al mestiere di modellista artigianale eseguito in casa sia all’impegno quasi a tempo pieno nelle vesti di prodiga madre del figlio disabile Baptiste, rifugge da qualsivoglia sofisticheria da strapazzo. L’opportuna sobrietà d’accenti, scelta per rendere gli spettatori partecipi del tran tran quotidiano d’una figura femminile aliena alle etichette di comodo attraverso l’incrociarsi discreto degli sguardi complici, non esibisce pretestuose qualità formali. Bensì sfrutta al meglio dal punto di vista contenutistico e comportamentale l’ampia gamma di semitoni. Estranei alle scontate commedie da salotto. Entrambi i rituali, in cui emergono il senso di maternità in costante soccorso del sangue del suo sangue e la riconquista perpetua della femminilità, sanciscono un’incursione carica di significato nell’universo muliebre.
Il protocollo del tragitto effettuato a duemilacinquecento metri di altezza per mezzo in prima battuta dell’autobus, in seguito dell’apposita funivia posta sopra il sentiero escursionistico – con le carrozzabili rinvenibili sotto i rilievi montuosi di La Barma e Le Liapey, il torrente del Glacier de l’En Darrey, il lago, la salita nel cuore d’impervie aree d’accesso, la Diga della Grande Dixence da Sion – infatti non cede la ribalta all’inerzia degli sfondi esornativi. Al contrario l’arcano svelato nella cameretta di Baptiste, dove l’alacre madre gli legge una fittizia lettera del latinante papà, spacciato agli occhi dell’ingenuo ragazzo per un instancabile globe-trotter, attribuendogli la descrizione dettagliata dei luoghi d’origine degli occasionali partners, trascina il previo carattere d’autenticità in infecondi cascami romanzeschi. Lo stesso succede all’effigie architettonica della struttura alberghiera catturata dalle riprese oblique che finiscono per preferire alla capacità del territorio eletto a location di riflettere il pathos degli stati d’animo, colmi di alienante meraviglia, un riverbero favolistico poco adatto agli stilemi dell’antiretorica. La rievocazione dell’annus horribilis, sancito dall’inopinata dipartita di Lady Diana inseguita dai paparazzi francesi, inoltre punta su espedienti capaci sì di sviluppare l’intreccio congiunto alla reiterazione delle due cerimonie giornaliere, che sigillano il mix d’altruismo ed egoismo in linea con la loro radice etimologica, ma incapaci alla prova del nove di andare davvero sottopelle. Una volta subentrato il turbinio dei sinceri batticuori insieme alla manifestazione fisiologica del consenso verbale col corredo degli immancabili gemiti uniti al congresso carnale, dapprincipio occultato, il linguaggio dei corpi, attratti come calamite, non trascende la risaputa correlazione tra istinto schietto ed estatico incanto che invece ripone in cantina le mere copule animalesche.
L’ordine naturale delle cose affidato in chiave metaforica al compiuto paesaggio riflessivo ed evocativo rispecchia però in egual misura il trascendimento dalla pulsione organica alla donazione reciproca tramite la stratificazione di processi spaziali ed elementi fisici. A costo nondimeno di tralignare la spontaneità di tratto introduttiva, alla stregua d’una visione artistica allergica lì per lì ad ampollosi fronzoli od orpelli vari, in programmatici nessi della fonte di purezza attribuita a vette e valli con il gioco di seduzione dello svelarsi assurto ad ardente intimità della rivelazione. Avvenuta con l’ingegnere idrico Michael intento ad approfittare del favore delle tenebre per consentire a Claudine di assistere da vicino mediante l’angolazione di un oblò alla magia dell’intarsio di colori prodotti dalle copiose bollicine a contatto con la luce negli abissi della gigantesca massa d’acqua che lascia sopraffatta da tanta bellezza. Lo slittamento dall’astrazione dell’umore lento, quasi ipnotico, alla foga romantica nulla toglie alla maiuscola performance di Jeanne Balibar, forte della toccante destrezza fisionomica, nel ruolo dell’inobliabile donna e mamma. Costretta in zona Cesarini a scegliere tra il rapporto ancestrale col cordone ombelicale mai reciso e il completamento nell’altro innescato dall’eros. L’inquadratura iniziale degli stivaletti di Claudine in procinto di assaporare l’ebbrezza del sentire, dell’apparire e dello sparire, conforme al procedimento della metonimia cara all’indiscusso pioniere della fabbrica dei sogni Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, risulta una chicca per intenditori. L’involuto prosieguo rende viceversa Solo per una notte l’occasione sprecata di un direttore d’orchestra ancora troppo inesperto per l’investitura ad autore in grado di connettere i valori plastici ed etici della settima arte allo scavo dell’impenetrabile sfera dei sentimenti divisi tra indole e gaudio.
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