L’idea di associare lo spirito di verità delle opere d’impegno civile al dinamismo dell’azione degli apologhi sportivi risulta fortemente sentita nel biopic a sfondo sociale Non dirmi che hai paura della regista turco-tedesca Yasemin Şamdereli.

All’appagante consapevolezza di poter mutare segno dal punto di vista stilistico ed espressivo da parte dell’ambiziosa Şamdereli, specie in confronto ad Almanya – La mia famiglia va in Germania in cui il tema sia dello sradicamento dei vincoli col suolo natio sia dei problemi d’inserimento in terra straniera era affrontato attraverso la sempiterna virtù di far riflettere ironicamente e di far ridere amaramente, corrisponde l’indubbia conoscenza intima della materia rappresentata dell’alacre collaboratrice Deka Mohamed Osman dietro la macchina da presa.

L’omonimo libro scritto in prima persona dall’avveduto ed eclettico romanziere e poeta milanese Giuseppe Catozzella, per cogliere appieno lo stream of consciousness della compianta e coraggiosa velocista somala Samia Yusuf Omar mettendosi nei suoi panni anche tramite l’aura contemplativa connessa al fermento profuso nell’agognato traguardo da raggiungere a tutti i costi, congiunge l’irrinunciabile carattere d’autenticità all’attitudine mélo a sublimare l’atroce sciagura di un’atleta di caratura internazionale costretta a restare a galla nel mare di Lampedusa mediante il segno d’ammicco all’avventuroso universo immaginario caro alle masse meno avvertite.  Il procedimento narrativo del flashback, che richiama viceversa alla mente degli spettatori più accorti l’intreccio dei piani temporali tra passato e presente di Almanya – La mia famiglia va in Germania, insieme alla destrezza di approfondire la cornice storica relativa agli spietati signori della guerra in Somalia che esacerbano la discriminazione di genere ai danni delle donne alle quali viene negato sin dall’infanzia il diritto di avere possesso del proprio corpo, innesca pure l’uso virtuosistico dell’idoneo match-cut visivo. Grazie altresì all’abile montaggio la silhouette della sprinter nell’atto di buttare il cuore oltre l’ostacolo buca lo schermo in scene analoghe nel corso dell’età verde. Dal roboante ed emblematico sparo dello starter effettuato dal giudice di gara alla fuga mozzafiato nel deserto, in barba agli aguzzini locali costretti a mangiare polvere, fino ad arrivare al faticoso ma corroborante training nel fiore degli anni stabilito dall’allenatore coetaneo, conosciuto sui banchi della scuola elementare sancendo il valore dell’amicizia nonostante l’aria di ostilità dei pregiudizi.

L’orchestrazione della trama in omaggio alle voci fuori dal coro, volte ad anteporre la voglia di futuro al timore di pagare dazio agli squadroni della morte, procede comunque lungo i binari piuttosto risaputi dell’affresco antropologico girato alla bell’e meglio. I consorzi domestici, con il capo famiglia intento a spronare la figlia a raggiungere l’obiettivo prefisso, il portamento muliebre della madre avviluppata nell’ancestrale veste cucita a mano, il figlio maschio intimorito dai militari avvezzi alle esecuzioni sommarie per soffocare ogni anelito di libertà, nondimeno tradiscono l’impasse di un descrittivismo se non piatto assai programmatico. Ed ergo inadatto ad analizzare a dovere il rovello frammisto alla tenacia mentale di chi, anziché trovare mero conforto nella preghiera o un filo di nebulosa speranza negli esodi di massa, punta all’approdo in Europa per sigillare la sacrosanta inversione di tendenza. Il primo piano dell’avvenente atleta di colore quando arriva ultima nei duecento metri piani femminili pone in evidenza il toccante gioco fisionomico dell’intensa llham Mohamed Osman nel ruolo di Samia. Animata dal fermo ed empatico desiderio di riaffermazione. Specie per mezzo degli occhi vivaci, epidermici, che vanno, infatti, sotto pelle. A differenza dell’ordinario mix di suoni diegetici ed extradiegetici. Incapaci di evocare in maniera persuasiva il filone orale di poesia identitaria che pertanto veleggia in superficie. Al pari dei cascami retorici riconducibili al cielo stellato, ai simbolici tramonti, ai vicoli in penombra. Certi effetti ora di allontanamento ora di avvicinamento ai luoghi natii caratterizzati dai legami di sangue mediante i carrelli a schiaffo scuote un po’ la visione dal deleterio torpore delle didascaliche ed enfatiche carrellate di turno.

Il trattamento frettoloso riservato all’effigie degli immensi spazi naturali che fungono da ostacoli quasi insormontabili per arrivare alla meta designata tradisce l’involuzione dell’autrice principale. All’oscuro, al contrario della catena di eventi benché malincomici scandagliati in Almanya – La mia famiglia va in Germania, dell’ansia di riscatto a braccetto con l’assoluta passione del vero covata step by step da Sania. Quantunque la sequenza subacquea dell’epilogo rispecchi l’opportuna sensibilità della prodiga assistente in cabina di regìa Deka, che comprende maggiormente le ragioni di conferire lo spessore della tragedia greca all’ultima gara, nelle acque assassine al posto delle piste regolari, per salire su una nave riottosa a dispetto dell’adagio “mors tua vita mea” tradotto in prassi da un conterraneo disperato, il loro impegno in tandem paga dazio alle eccessive componenti manieristiche. Non dirmi che hai paura quindi, pur onorando la giovane donna che ha speso sino all’ultima fibra nell’ambito dell’agonismo e nei flutti della lotta per la sopravvivenza, non valica le robuste ma prevedibili parabole a corto d’ingegno. Lo stato d’attesa allestito secondo copione non crea comunque particolari batticuori. Il senso di déjà vu, con Io, capitano di Matteo Garrone come modello predominante in possesso di ben altra vigoria comunicativa, manda a carte quarantotto qualsivoglia senso di meraviglia in grado d’inchiodare alla poltrona persino gli spettatori allergici ai soliti predicozzi. Restano in attivo le buone intenzioni, la retorica del portafortuna paterno perso nella fatidica sequenza subacquea conclusiva e la smania di alzare il tiro rispetto al dramedy di costume. Peccato che non bastino a convertire lo scontato poeticismo nella salda poesia in lode agli slanci esistenziali.


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