La sagacia iconoclasta dell’estroso Miguel Gomes in cabina di regia torna con l’insolito road-movie Grand Tour ad amalgamare stilemi documentaristici ed effetti onirici come nel monumentale affresco Le mille e una notte. Riletto per il cinema sulla falsariga dell’illustre esempio fornito dal compianto connazionale Manoel De Oliveira, indiscusso maestro del cinema portoghese, specie nell’apologo cristiano Atto di primavera e nell’intenso ed epidermico mélo Amore di perdizione.

L’egemonia dello spirito sulla materia resta l’implicito nonché imprescindibile punto di partenza per imprimere al viaggio attraverso Cina, Giappone, Thailandia, Vietnam e Singapore sia la lentezza ipnotica dell’aura contemplativa, connessa al carattere misterioso della poesia, sia il carattere, invece, d’autenticità caro agli alfieri del neorealismo sociale.

Non deve però trarre in inganno l’ovvia critica alla mentalità colonialista predominante ai tempi dell’imperialismo perpetrato dalla Perfida Albione. A Miguel Gomes, fiero di trarre partito dal carattere d’ingegno creativo  del suo nume tutelare per eccellenza ma ben lungi dal cadere nell’impasse dei citrulli nani sulle spalle degli inventivi giganti, non manca affatto la personalità ed ergo neanche la fragranza dell’originalità. Lo testimonia appieno l’arguta ed eccentrica analisi degli stati d’animo in subbuglio, esibiti parallelamente a distanza step by step, dell’imbelle funzionario inglese Edward e della risoluta promessa sposa Molly. Decisa, dopo averne perse le tracce il 4 Gennaio 1918 in quel di Rangoon nel cuore della Birmania ad un tiro di schioppo dalle nozze, a riacciuffarlo affrontando un tragitto ben diverso da quello compiuto a cominciare dal secolo precedente dai ceti aristocratici. La vita dei sentimenti d’ambedue i personaggi dai natali britannici, che parlano però per magica assonanza ed empatia la medesima lingua dell’avverito autore, lacera così il tessuto narrativo convenzionalmente inteso. Nella prima parte l’evidente crocevia di scorci pittorici, ghermiti col repentino passaggio dal colore al bianco e nero, ed eccessi metaforici si condensa attorno alla figura miseranda di Edward. Interpretato dal sobrio Gonçalo Waddington in chiave atonale. Gli echi della commedia dell’arte e le pose burattinesche congiunte alla scrittura per immagini attinta ai capolavori muti, con gli eloquenti silenzi quindi in bell’evidenza, non conferiscono però lì per lì un particolare risalto all’effigie delle varie tappe dell’inane fuga. Da Saigon a Bangkok. I cui sovrappiù allegorici, dovuti alla velleitaria smania di aggiungere lo charme dell’atmosfera arcaica dei febbrili apologhi sulla correlazione tra habitat ed esseri umani del maestro brasiliano Glauber Rocha agli echi letterari di Jules Verne ed Emilio Salgari e all’illusione dell’avventura ad appannaggio d’ogni opera-mondo cara al pubblico dai gusti semplici, suonano piuttosto formalistici.

Ad alzare l’asticella sotto l’aspetto contenutistico, una volta archiviata l’ormai risaputa capacità dei luoghi eletti a location di condizionare i modi di reagire agli imprevisti tipo il deragliamento del treno nell’impervia giungla, diametralmente opposta all’hotel di lusso dove Edward si confronta con l’indocile cugino di Molly, intervengono le inquietudini d’ordine filosofico ed esistenziale suscitate dall’ingegnosa rivoluzione del tessuto spazio-temporale. In tal modo lo straniamento epico legato sennò solo ed esclusivamente alla canonica scoperta dell’alterità, intesa come qualcosa che esula dall’ordinario tipo gli usi e i costumi degli abitanti locali alieni alle fuorvianti comfort zone, prende quota: i manieristici esercizi di stile ravvisabili nel passaggio dall’astratto al particolare costituito dalla compiaciuta metominia e nell’antidiluviano effetto iride, rispolverato per veicolare l’attenzione degli spettatori maggiormente avvertiti sul fascino d’un tran tran giornaliero tanto insolito quanto spaventevole incontrato strada facendo dal codardo burocrate, che dà l’addio agli assilli dell’edonismo imbattendosi in un console britannico intontito dalla droga, cedono il passo al sacrosanto predominio della polpa, carica di senso, sulla gelatina dell’infeconda ricercatezza. Spezzando i piani del racconto privo di mistero, nonostante gli ammiccanti rimandi alle ombre cinesi che secondo la tradizione scacciano ogni anelito maligno, Miguel Gomes ricava davvero linfa motu proprio dalla lezione di Manoel De Oliveira. Catapultato fugacemente nel XXI secolo – con i telefoni cellulari che scalzano per alcuni, emblematici attimi gli antichi riti propiziatori ghermiti dai perlustrativi movimenti di macchina – il teatro a cielo aperto del Sol Levante acquista molto spessore. Scevro dalle previe secche dell’inane retorica con le foglie scosse dal vento e i riverberi lunari distesi lungo gli impersonali specchi d’acqua di turno. Al cortocircuito elegiaco dello spaesamento colmo di significato corrisponde nella seconda parte il ritorno al passato sancito dalle pieghe facete dovute alla buffa risata dell’energica Molly. Che non perde mai di vista il valore terapeutico dell’umorismo. Succeda quel che succeda. Ivi compresa la risalita mozzafiato nelle battute conclusive in piena tempesta del fiume Yangtze all’insegna della sana complicità femminile. Rinvigorita dall’opportuna vena protettiva della prodiga ed estatica assistente Ngoc.

Anche se la resa dei vari effetti – stranianti, surreali, tragicomici, drammatici ed evocativi – stenta talora ad amalgamare appieno i diversi stilemi, alternando lo sviluppo diseguale del bozzetto sarcastico e delle peripezie brillanti, foriere della debita leggerezza, ai cupi dilemmi sotterranei risolti palmo a palmo, i colpi d’ala non accennano mai a slabbrarsi. Memore della Passione di Cristo ricreata nel paesino di Curahla in Atto di primavera, per cristallizzare la cosiddetta realtà dell’artificio per mezzo del concetto di risurrezione, Gomes lega i momenti d’incanto all’impellente bisogno di ricominciare da capo. Nel rispetto dei connotati morali anteposti dalla potenza dell’irrazionale alla personificazione della Minaccia, identificata in ciò che non si conosce, per sconfiggere la paura di sentirsi inadeguati rispetto a una supposta norma. Estranea allo scintillio della fede. Mentre le composite voice over legate ai luoghi dell’anima assurti ad avvolgenti labirinti svelano programmaticamente l’intreccio cosparso d’indizi, seppur poco canonici, il gioco fisionomico della bravissima Crista Alfaiate nei panni di Molly rende onore alla smania di trasfigurare la realtà sulla scorta del corroborante slancio ascetico. Condotto a termine grazie al coraggio di superare il timore ancestrale delle terre inesplorate. L’accostamento d’una cornice burlesca all’elaborazione mitologica dell’intero universo attraverso una singola particella, concorde con le tribolazioni e i rinvenimenti di una coppia così lontana così vicina, per dirla alla Wim Wenders, taglia il traguardo dell’intelligenza al riparo dall’impasse dell’autocompiacimento. Grand Tour infatti non è un rompicapo per quattro gatti, convinti di capire meglio delle masse le opere intente ad accorpare la dimensione spazio- temporale della cultura avveniristica a quella spaziale dei vetusti tableaux vivants, bensì un piccolo gioiello per tutti. Uniti dal piacere di guardare al passato, al presente e all’ardore di vincere lo sgomento dell’ignoto privilegiando allo spettro degli incubi collettivi, che sanno di stantio, la marcia in più della fabbrica dei sogni affezionata ai vincoli coi suoli da scoprire ed esplorare.


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