Giunto al ragguardevole traguardo delle novantaquattro primavere, cinquantatré delle quali spese ad assimilare in cabina di regia lo scavo interiore fornito dai ritmi gravi ed empatici dell’aura contemplativa insieme all’incontestabile charme del franco tiratore della settima arte pure, se non soprattutto, nelle previe vesti d’interprete solido ed eminentemente asciutto, ben lungi quindi dal premere il tasto del mero sensazionalismo, l’intramontabile leone Clint Eastwood conferisce anche al thriller introspettivo Giurato numero 2 la virtù d’ingrandire i confini dell’immaginazione. Senza perdere mai d’occhio l’indomabile cipiglio dell’attore avvezzo a parlare con gli eloquenti sguardi dipinti da oltre mezzo secolo sul granitico volto inciso da rughe d’espressione simili a solchi incavati nella roccia.

Anteponendo alla deleteria tentazione dell’enfasi di maniera, caldeggiata dal pubblico avverso ai dispendi di fosforo, il valore della sobrietà d’accenti per sbrogliare al meglio la matassa tipica dei tradizionali gialli, riflettere il profondo sentimento d’insicurezza insito nella pace prima della tempesta ed esibire così l’organicitá stilistica, ravvisabile nel caso in questione solo dietro la stimolante macchina da presa, necessaria a ricomporre appieno l’intrinseca partitura poetica custodita in egual misura tanto nelle canoniche praterie battute dal vento quanto negli interni rivelatori.

Connessi al denso rapporto tra habitat ed esseri umani ad appannaggio della geografia emozionale. Delle debite soluzioni impreviste. Dell’egemonia dell’amor vitae sul tetro cupio dissolvi. Dell’unhappy end dispiegato viceversa di quando in quando, tipo in Million dollar baby, in chiave diametralmente opposta. L’incipit trae linfa dai codici pittorici adattati al grande schermo con il morbido carrello all’indietro che ritrae step by step la statua della giustizia in Georgia con la spada nella mano destra e il velo sugli occhi. Simbolo dell’irrinunciabile imparzialità. A dispetto di alcune radicate paure ancestrali che ne minano le fondamenta seppur rientrino nell’ordine naturale delle cose conformi al pacifico istinto di conservazione. Il lapalissiano match cut visivo delegato a introdurre l’intesa di coppia nell’avvolgente consorzio domestico dell’avvenente ed eterea Ally Kamp in dolce attesa, bendata dal consorte Justin per accrescerne la gioia di scoprire l’energia positiva trasmessa dal quadro familiare con il fiocco rosa sulla porta, coglie comunque nel segno. L’immediato prosieguo veicola l’attenzione d’ogni spettatore, ingenuo e accorto, nell’alacre raffigurazione dell’edificio che sunteggia il complesso degli uffici demandati all’espletamento dei differenti gradi di giustizia. In cui verte lo scopo edificante della rappresentazione: Justin, incaricato da privato cittadino di espletare le incombenze di giurato numero due in un attesissimo processo per omicidio dall’esito dapprincipio ovvio, assapora, step by step, mediante la de-drammatizzazione iniziale dell’intreccio unitamente alla dissoluzione minimalista approfondita dagli ieratici alfieri dell’antiretorica, il thrill o brivido che dir si voglia, dopo i debiti controlli all’ingresso col metal detector, nel palazzo dove, una volta depositati gli atti, ammesse le prove, raccolte secondo copione, sulla scorta degli appositi documenti, fornite le decisive testimonianze, prese le debite decisioni di diritto, ascoltate le arringhe dell’accusa e della difesa, giustapposte per mezzo del sagace montaggio, nel valutare ed emettere, insieme alle altre undici persone assemblate a tale scopo, il verdetto pro o contro. Nel massimo rispetto dell’accurato ed emblematico elemento iconografico. Il passaggio dall’evocativa de-drammatizzazione introduttiva alla collaudata penetrazione psicologica dei legal drama dalle cadenze thrilling persuade invece assai meno di quello dalla marmorea fierezza dell’opera plastica che non guarda in faccia nessuno pur di servire sul serio il senso di giustizia in questione al consueto gesto romantico di coprire gli occhi dell’intenerita coniuge per prepararla alla gradita sorpresa relativa alla cameretta predisposta ad accogliere l’agognato nascituro.

Lo scontato mix di attanaglianti dilemmi morali ed esami comportamentistici,  condizionati dal pluralismo dei punti di vista d’ascendenza pirandelliana, traligna tuttavia l’alacre scelta delle inquadrature, il progressivo coinvolgimento di qualsivoglia platea, divenuta complice dell’atroce segreto celato dell’ormai immusonito Justin, al pari dell’indubbia portata ideologica dell’assunto, nell’accidia dell’infruttuoso déjà vu. I rimandi sottobanco a Rashōmon di Akira Kurosawa, La parola ai giurati di Sidney Lumet, Sotto accusa di Jonathan Kaplan ed …e giustizia per tutti di Norman Jewison testimoniano la penuria d’idee originali dell’avventizio sceneggiatore Jonathan Abrams. All’oscuro delle autentiche invenzioni sceniche da convertire dalla teoria alla pratica per cospargere l’intreccio di piste circoscritte in questo caso, a prima acchito da manuale, nei flashback ormai antidiluviani. Che la mano ferma, in determinate circostanze persino magica, del vecchio ma coriaceo Clint incanala, benché obtorto collo, nel rimpianto del tempo perduto caro al guru Sergio Leone, nella voluttà di rimestare così nel paradigmatico passato, nel legittimo seppur sofferto desiderio di acquisire l’audacia di confessare le proprie colpe scagionando l’imputato dall’incriminazione di aver volontariamente investito con l’automobile la dolce metà al termine d’una accesa lite inasprita dai fumi dell’alcool nel pub di turno. L’inane tentativo di sopperire lavorando di cesello all’accidia degli spunti presi in prestito preserva la proverbiale robustezza del timbro narrativo. L’assiduo ricorso alle didascaliche correzioni di fuoco, anziché veicolare l’attenzione persino delle platee più avvertite sugli eloquenti silenzi rinvenibili negli sguardi a distanza che comunicano molto di più dei dialoghi serrati e dei tambureggianti botta e risposta all’interno della stanza dove i giurati discutono sulla decisione da prendere, svela i limiti del risaputo confronto d’ipotesi agli antipodi incapaci di vederci chiaro.

Al posto del clima di mistero prende piede quello ascetico che, a differenza del piacere di riempire il puzzle come in Potere assoluto con la scoperta dei personaggi ignari dapprincipio dell’arcano all’origine dell’angoscia esistenziale del protagonista, sbalzato di sella dal ruolo di giustiziere silente alle vesti del confessore represso, sciorina semitoni mandati ad effetto sulla scorta della fatalità ammonitrice di parecchie chicche precedenti. Con Il corriere – The mule sugli scudi. Risulta ridotta al lumicino la probità artigianale della messa in scena di stampo classico. Aliena sia all’iperbole del realismo fenomenico, lontano anni luce dall’acuta sensibilità frammista al virile riserbo dell’ultimo western crepuscolare Cry macho – Ritorno a casa, sia all’estetica post-moderna degli odierni noir. La rivisitazione degli eventi cruciali scanditi dalla pioggia battente e dall’atmosfera notturna non cerca mai di scandagliare il tocco del male bensì la debolezza della gente comune. L’operazione, dal sapore testamentario, riesce in parte. A Nicholas Hoult, orfano della destrezza recitativa dimostrata aderendo all’antagonista del fuorilegge di The Kelly Gang, manca il supporto della psicotecnica per dare al tormentato Justin lo spessore della straziante normalità onde tenere testa alla bravissima Toni Collette. Che garantisce notevole brio al grintoso ed elegiaco profilo dell’avvocato in gonnella assetata di giustizia. Ridiscussa dalla bilancia della reiterata statua che traballa a un tiro di schioppo dalla sensazione di sospensione dell’epilogo aperto che, oltre al compiaciuto autocitazionismo eastwoodiano con Mystic river, richiama alla mente Io so che tu sai che io so di Alberto Sordi. Giurato numero 2 nell’interiorizzare ed esteriorizzare i meandri e gli indugi della coscienza di un antieroe quotidiano espone senz’alcun dubbio un tema che risulta nelle corde dell’inossidabile autore. Peccato che ci abbia abituato troppo bene per confondere i vieti stereotipi concernenti la necessità di levarsi una spina dal cuore ed eludere gli orribili incubi a occhi aperti con la sottigliezza combinata al polso fermo del battitore libero della fabbrica dei sogni.


Una risposta a “Giurato numero 2: la bilancia del vecchio leone Clint”

  1. Avatar Gabriella Giorgelli
    Gabriella Giorgelli

    Sara” un film bellissimo

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