Deciso ad appaiare l’alta e la bassa densità lessicale, il senso d’appartenenza connesso, sia in prassi sia in spirito, alle forme-bandiera del vernacolo romanesco a braccetto con la sempiterna forza significante dei versi shakespeariani, il teatro naturalistico di Gigi Proietti amalgamato, senza alcuna cacofonia, al lavoro sul corpo appesantito secondo i parametri dell’Actors Studio presieduto dal compianto guru Lee Strasberg, l’eclettico Edoardo Leo torna a misurarsi tanto davanti quanto dietro l’indocile ma allettante macchina da presa in Non sono quello che sono per unire altresì cuore e cervello.

Una missione impossibile per Woody Allen in Crimini e misfatti. Mentre la rilettura pressoché integrale dell’inobliabile Otello, frutto della fertile mente del Grande Bardo, mira esplicitamente a trarre linfa dagli spazi, ora brevi ora infiniti, tra una parola e l’altra, sulla scorta d’una scrittura per immagini in linea con il concetto odierno di università della strada, ed estrapola suggestioni estranee alla vibrante complessità astratta dall’amato dialetto capitolino. Insieme a quello napoletano ad appannaggio dell’avvertita Antonia Truppo nel ruolo della schietta Emilia. Sfortunata moglie del manipolatore Jago.

Lo scopo precipuo consiste nell’annullare le distanze dovute alle ardue immersioni negli abissi dell’assimilamento obtorto collo dei brani in prosa. Lungi comunque dal rimanere nella superficie d’una vanesia variante espositiva e di fare le cose alla carlona, giacché entusiasta all’idea di ricreare nel sottotesto le premesse interiori ed esteriori del metistofelico ed ermetico Jago, Edoardo Leo sfrutta la sincera passione per la partitura trascendente d’un’opera ancor oggi mestamente attuale. A causa degli sconfortanti femminicidi che monopolizzano le pagine della cronaca. Agli spettatori meno propensi ad abboccare all’amo degli stilemi del mistero ribattezzato presente, agli occhi del saggio ed erudito Peter Brook, gli impliciti rimandi ad Accattone di Pier Paolo Pasolini nonché all’impegno civile unito al notevole livello di coinvolgimento viscerale riscontrabile nella tragedia classica, collegata in filigrana alla capacità di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente sulla falsariga della commedia dell’arte, trasmessa di bottega in bottega, Non sono quello che sono riporterà forse alla memoria l’arguta ed evocativa pièce teatrale Shake fools di Manuela Tempesta. Al posto però del coraggio intellettuale di sostituire la magia perduta congiunta alla meraviglia della scoperta poetica con la fragranza dell’originalità e lo spessore dell’assoluta coerenza nel fornire autentiche interpolazioni scevre da qualsiasi sudditanza malcelata, Edoardo Leo rispolvera l’ennesimo tempo perduto caro a Proust. L’effigie del litorale laziale, preferito al canonico proscenio privo della virtù di consentire alla location l’elezione ad attante narrativo carico di significato, cerca invano di riverberare da copione il turbinio degli stati d’animo nel trapasso dall’inizio del XVII secolo al primo anno del nuovo millennio. Nonostante l’apprezzabile apporto fornito dall’alacre fotografia, impegnata a convertire in apparenza il valore figurativo in valore introspettivo, l’ovvio colore livido annodato alle qualità pittoriche dello spoglio paesaggio di Nettuno, assurto a iconico non luogo col castello inserito nel tenebroso quadro divenuto però alla prova del nove uno sfondo inerte anziché l’ambìto anello di fusione con le radici del passato, non aggiunge nulla di davvero rilevante. Le vie semideserte, parallelamente alle roboanti onde che s’infrangono sulle immancabili rocce, evidenziano dunque l’assenza d’una concreta ed effettiva dinamica cromatica annessa sul serio alla struttura ritmica dell’aura contemplativa.

Sono invece gli elementi peculiari del thriller ad avvolgere l’atmosfera d’ipotetica incognita in cui i soliti volti patibolari, connessi all’ormai stantia suburra dell’inflazionata Caput Mundi, deviano assai poco dalla convenzione dei codici malavitosi equiparati, con il beneficio dell’inventario, ai codici cavallereschi. Della serenissima Repubblica di Venezia, per la precisione, nel capolavoro chiamato in causa al fine di colpire allo stomaco chi considera la torbida palingenesi di Otello, roso dalla gelosia per Desdemona e schiavo del complotto ordito da Jago, il dramma d’un uomo fondamentalmente insicuro. A dispetto dei titoli d’onore conquistati sul micidiale campo di battaglia. L’effigie del marciapiede, della discoteca dove il maneggione getta le basi dell’atroce intrigo, dei sinistri consorzi domestici si affida ai tópoi della geografia emozionale, senza cogliere mai la mitopoiesi ivi congiunta, per predisporre l’humus destinato ad accogliere la fredda soperchieria conclusiva. Prediletta con buona pace dell’originaria oppressione stabilita dall’inimitabile autore inglese. L’avventizio status d’autorialità ghermito da Edoardo Leo nella doppia veste ricava quindi ben poco giovamento dall’egemonia della scioccante svolta secca sull’infeconda lusinga dell’iperbole e del ricalco. La tenue proprietà stilistica, benché animata dalle migliori intenzioni in merito all’analisi della psicosi narcisistica del possesso, rientra in un’ottica dall’inidoneo sapore didattico. Incompatibile con l’allegria feroce dei ragazzi di vita riecheggiati nelle battute introduttive, con la vigorosa rozzezza del lessico primordiale che si accompagna al fatalismo di stampo biblico, coi dispositivi millenari dell’esplorazione dell’animo umano. Disgiunti dagli sporadici squarci visionari offerti dal prevedibile mix d’interni ed esterni e dall’assillante bisogno d’assegnare un’ipnotica lentezza agli interludi d’ingannevole quiete frammisti agli immancabili indugi in attesa dell’irrompere della premeditata violenza. Cagionata dallo sgretolamento palmo a palmo della già fragile corazza identitaria. Riacquisita in extremis, tardivamente, per mezzo della pleonastica preghiera ad Allah e delle stratificate frasi proferite nel glossario della remota terra natìa.

L’intrinseco pistolotto moralistico sul razzismo dovuto alla pigmentazione nera paga dazio all’enfasi manieristica che accosta l’orrido simulacro ghermito attraverso la televisione del crollo delle Torre gemelli al simbolico cedimento dei migliori angeli dell’indole d’ogni creatura terrestre dinanzi all’ennesima fascinazione del male. Edoardo Leo nei panni di Jago ne incarna il fondamento incoercibile, prendendo spunto, con l’ausilio del valido trucco, dal disilluso Noodles di C’era una volta in America. Pronto, di fronte alla fuorviante illuminazione della troupe giornalistica, a mostrare tra le pieghe della maschera, cosparsa di paradigmati solchi, la scia, nascosta dal riserbo culminante, del rimorso di coscienza. L’impressione di assistere alla performance del tipico nano sulle spalle dei giganti, nonostante l’indubbia simpatia e la levatura recitativa dimostrata ex ante in ruoli diametralmente opposti tra loro, trova riscontro nella scarsa incisività delle battute conclusive scandite dal montaggio alternato con la spugna gettata sulla spiaggia giustapposta alla ritrosa intervista in carcere ventitré primavere più tardi. Accanto a lui, tradito dalla volontà di unire il mezzo conoscitivo della fabbrica dei sogni al vezzo del mattatore, il misconosciuto Jawad Moraqib di origine marocchine dá l’acqua della vita nel ruolo dell’Otello di Nettuno a parecchi punti morti della trama in virtù dell’opportuna sottorecitazione. Il resto del cast, al contrario, alterna all’istrionismo delle prime donne la prova scolastica dei neofiti. Non sono quello che sono confondendo le acque sull’esempio della locuzione latina “Esse quam videri” (“Essere più che sembrare”) trascura il lascito principale del maestro Konstantin Sergeevič Stanislavskij: conoscere significa sentire. Formuliamo l’augurio che Edoardo Leo metta da parte le pretese della camera a mano congiunte ai timbri antropologici attinti all’altrui ingegno per scandagliare la verità dei sentimenti come fece dirigendosi nella commedia all’italiana Diciotto anni dopo. Esibendo con il genuino valore terapeutico dell’umorismo lo scatto d’orgoglio d’un meccanico balbuziente fedele all’autenticità dei vincoli di sangue e di suolo non appena i nodi vengono al pettine.


Una risposta a “Non sono quello che sono: lo Jago di Edoardo Leo alle prese con l’Otello di Nettuno”

  1. Avatar Anna Pastore
    Anna Pastore

    Imparerò l’italiano benissimo se continuo a leggere come esprimi nei dettagli i tuoi film.

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