Realizzare un biopic sportivo comporta spesso e volentieri il tangibile rischio di pagar dazio all’enfasi manieristica, pregiudicando in tal modo il confacente timbro d’autenticità al servizio d’improbabili scene-madri, o d’inserire, nel solco dello spettacolo imperniato sul fervore morale necessario a raggiungere gli obiettivi prefissi, sequenze descrittive conformi alla rievocazione d’epoca ma aliene al risvolto poetico indotto dalla ricchezza di contenuti ad appannaggio della realtà messa in scena.
Decisi ad anteporre la suggestione pirotecnica degli atleti intenti a buttare il cuore oltre l’ostacolo, sullo sprone d’un allenatore dal temperamento carismatico, rispetto all’economia della forma esibita dai seguaci dell’antiretorica, estranea ai consueti apologhi sulla tenacia graditi al pubblico dai gusti semplici, Deng Chao e Yu Baimei dirigono in tandem Ping pong – Il ritorno per arricchire di sapide prospettive figurative l’empatico legame del popolo cinese col tennistavolo.
Assurto dalle autorità competenti a ragguardevole biglietto da visita da sfoggiare con legittima fierezza in giro per l’intero pianeta. La vicenda dell’ex campione Dai Minjia divenuto trainer della nazionale maschile di ping pong, eletto al rango di disciplina olimpica a partire dall’annus mirabilis 1988, punta ad accrescere le risposte empatiche delle masse sensibili agli affreschi, quantunque di grana grossa, concernenti dedizione, sacrificio, aspetti tattici e organizzativi legati alla trasposizione del tennis al chiuso. Gli spettatori dal palato fine storceranno ugualmente la bocca dinanzi ad alcune azzardate modalità esplicative che tolgono a ben vedere ogni mistero al passaggio dall’astratto al particolare. Vale a dire la concentrazione di energia congiunta al rimbalzo caratteristico della pallina sull’apposito tavolo da gioco. L’assiduo ricorso allo slow motion nei momenti topici del torneo decisivo per infrangere il diktat del tempo reale, ed ergo introdurre attraverso l’escalation di effetti speciali la transazione da macro a micro dovuta al mix di contrazione ed espansione dello spazio cruciale, non contribuisce certamente a cogliere l’indimenticabile attimo fuggente conforme all’omonimo cult statunitense. Bensì traligna, stringi stringi, in espedienti d’ordinaria amministrazione i meri benché insistiti tentativi di catturare la magia del momento culminante. L’ovvia interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici, insieme al prevedibile dinamismo dell’azione e all’inconsistente ritratto d’ambiente dispiegato lungo l’arco narrativo dal 1992 al 1995, non basta a illustrare sul grande schermo l’emblematico transito di calore energetico convertito, da copione, in calore umano.
Manca quindi all’appello l’opportuna dimensione introspettiva dei vari personaggi coinvolti con la prova del nove nella dilatazione temporale subita dalle palline da ping pong sulla base dei sistemi ubbidienti alle medesime leggi gravitazionali care a Einstein. La grossolanità degli esercizi di stile tesi a stravolgere il suddetto principio di equivalenza, e ghermire il fanciullino del Pascoli insito nei fruitori meno avvertiti sulla falsariga del cartoon nipponico Holly & Benji incentrato sul mondo calcistico nell’impero del sole, trascura colpevolmente la forza significante dei rumori autentici uniti ai disaccordi, connessi invece notoriamente da Woody Allen agli accordi, e di conseguenza al sottosuolo dei gesti. Per capire appieno, lontano dai rapidi carrelli ora all’indietro ora in avanti e dal trattamento troppo frettoloso del tema rappresentato in pompa magna, l’inversione di tendenza costituita dal cambio d’impugnatura rispetto a quella classica. Anche se l’egemonia dell’inidonea ridondanza sull’arte della sottrazione permette lo stesso ai fruitori ignari del supporto fornito al concetto e alla prassi dell’estensione dall’impugnatura della racchetta nei risoluti colpi di dritto, dello smash, dell’accorto backspin, dell’audace topspin, l’esecuzione virtuosistica delle versatili rotte impresse alla fatidica pallina da ping pong per assicurarsi la riconquista della Coppa Swaythling, ghermita step by step, appare lapalissiana. Le polveri bagnate emergono viceversa nel disegno appena abbozzato di Ding Song, Ma Wenge, Wang Tao, Liu Guoliang e Kong Linghui. Ossia il manipolo selezionato da Dai Minjia per aggirare qualsivoglia complicazione. Inclusa l’infida malattia. Sconfitta grazie al determinante avallo della devota e grintosa consorte a corto di sfumature psicologiche degne di rilievo.
Lo sforzo profuso per veicolare l’attenzione perfino dei cinefili di provata fede, ostili perciò ai segni d’ammicco delle pellicole tagliate con l’accetta a vantaggio di platee senza tante pretese, si esaurisce nelle sagome nere degli eroi di turno che si stagliano sulle improbabili pareti bianche per dare l’impressione d’impreziosire la modesta scrittura per immagini per mezzo dell’appropriata componente luministica. Brancolano, al contrario, nel buio le pleonastiche correzioni di fuoco, inadatte a rendere il bisogno di vederci chiaro nel ginepraio in cui si caccia dapprincipio il gruppo guidato dalla vecchia gloria del tennistavolo made in Cina, al pari del sentimento d’insicurezza saldato alla bell’e meglio con la prossimità dei nodi che vengono al pettine suggerita dallo sterile split screen. A dispetto dell’ottima performance garantita dall’intenso ed eclettico Deng Chao nel ruolo dell’ostinato Dai Minjia, più persuasivo davanti la macchina da presa anziché dietro, a differenza del resto dello scadente cast dedito alla recitazione monocorde, la fiera degli stereotipi sulle scelte compiute dal capociurma per permettere alla miscela di coordinazione e vigoria mentale, temprata dalla costanza dell’inesauribile tirocinio analogo alla molle acqua che buca la dura roccia, d’illeggiadrire l’atteso trionfo in zona Cesarini, trasborda da tutte le parti. Cadono così definitivamente nel ridicolo involontario che attanaglia Ping Pong – Il ritorno sin dall’incipit i raid nella presunta incisività estetica ed espressiva dei melensi colpi d’occhio. Tipo lo spirito di corpo riverberato dalla pozzanghera vicino alla canonica spiaggia prima dell’appuntamento con la storia. Roba realmente da chiodi.
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